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Calcio di Bonazzoli a Donati: Var come capro espiatorio, il sistema si assolve

La prova tv, che avrebbe ristabilito la verità sostanziale, non è applicabile perché l'episodio è stato valutato da Pasqua come un gesto involontario

LECCE - È toccato al signor Pasqua di Tivoli recitare il ruolo di agnello sacrificale - non è una battuta - per archiviare le proteste per la mancata espulsione di Bonazzoli per un fallo di reazione su Donati, in Lecce-Sampdoria di mercoledì sera.

Un episodio, nella prima parte di gara e sul risultato di parità, sul quale commentatori e tifosi, anche di parte ospite, si sono espressi senza alcun dubbio, tanto è evidente il movimento innaturale della gamba del blucerchiato che, dopo essere caduto per la spinta subita dal difensore, rotea l’anca e poi la estende inarcando anche il piede per arrivare a colpirlo, procurandogli una ferita al volto.

Il dispositivo con cui il giudice sportivo ha ritenuto di non dover procedere all'utilizzo della prova tv, ai sensi dell’articolo 61, comma terzo, del Codice di giustizia sportiva, racconta che, invitato dall’arbitro Rocchi a riesaminare il contatto attraverso le immagini televisive, il Var - cioè Pasqua - abbia optato per l’involontarietà. Al direttore di gara, “sentito” dal giudice, pare non fosse “chiara la dinamica ma soprattutto la visuale”: per questo ha chiesto conferma a Pasqua, il quale, molto diligentemente, “stava già effettuando il check” secondo quanto disposto dal protocollo di applicazione del Var.

Una interpretazione dunque c’è stata ed è ciò che ha impedito l'applicazione della prova tv: peccato sia quella che non convince nemmeno, come si diceva in apertura, tanti tifosi doriani che, sportivamente, hanno manifestato il loro imbarazzo per quel gesto doloso (ma anche per la decisione che ha portato al secondo rigore per gli ospiti). Nessun commentatore o addetto ai lavori si è azzardato a sostenere la tesi dell’involontarietà, fatto quasi eccezionale considerando la rissosità verbale e la creatività ai limiti del fantastico quando c'è da discutere un episodio dubbio. È stata, dunque, proprio una gran sfortuna per il Lecce trovare l’unico uomo che sulla faccia del pianeta abbia giudicato non voluto un gesto che le tante e precise riprese televisive hanno svelato nella sua nuda essenza: un fallo di reazione. Nemmeno un minimo sospetto, nulla che portasse Rocchi ad andare al monitor a verificare di persona. Molto strano, dai.

Difficile, quindi, bersi questa versione che da un punto di vista formale mette un punto alla questione, ma da quello sostanziale lascia il sapore di una presa in giro davvero insopportabile, un déjà-vu, a dire il vero: dopo il gol annullato a Lapadula in Lazio-Lecce ci volle , infatti, l’ammissione di Rizzoli, capo della classe arbitrale, per placare il malumore dovuto a una interpretazione extra regolamentare della fattispecie dell’invasione dell’area in caso di rigore da parte di calciatori di entrambe le squadre. Il Lecce venne elogiato per lo stile con cui aveva rivendicato le sue ragioni e allora sembrava che tutti potessero vivere felici e contenti, fiduciosi che il dialogo costruttivo avrebbe portato al chiarimento di situazioni ambigue e discrezionali. Invece no, perché il lupo perde il pelo ma non il vizio.

Dopo aver assistito inermi alla farsa della giornata di recupero pre-lockdown, quella in cui il Genoa ha vinto in trasferta col Milan, la Spal ha vinto a Parma, la Sampdoria in casa con il Verona dopo essere passata in svantaggio, la ripartenza del campionato sembra più un’appendice per far quadrare i conti, pressati da una situazione incerta per natura a causa del Covid-19.

Ora, sia chiaro, non è un problema ritornare in B, non per un qualsiasi tifoso che ha già digerito una retrocessione d’ufficio in C per tentata combine, sette anni di peregrinazioni tra il suggestivo verde di Melfi, la leggenda della Salerno-Reggio Calabria, i campi roventi della Campania, qualche escursione nel Nord Italia tipo gita scolastica e incontri con squadre di pacifiche cittadine e repubbliche (San Marino). Fughe, rincorse e umiliazioni fino all’agognato ritorno nella cadetteria. Il problema è quello di aprire gli occhi, a un certo punto, e arrivare a chiedersi se il gioco valga ancora la candela: non si tratta qui di spaccare il capello in due sui risultati scontati da fine campionato, che per una serie di fattori possono essere ritenuti fisiologici, ma di porsi un limite oltre il quale non si dovrebbe andare, per decenza.

La società del Lecce è fatta di persone perbene, prima di tutto tifose della squadra, appassionate fin nel midollo da tempi non sospetti (a parte De Picciotto che è un pugliese adottivo): erano quasi tutti in tribuna, mercoledì, appollaiati tra quelle file di seggiolini troppo vicine per essere confortevoli. Scorgere nel loro volto l’alternanza tra momenti di ottimismo e quelli di sconforto, ascoltare le parole che si dicevano l’un altro – tutte cose che non si possono notare e sentire quando la tribuna è gremita dal pubblico - è stata un’esperienza non comune.  Del resto, assistere a una partita di calcio in un silenzio surreale, significa riuscire ad annotare anche molto di quello che si diceva in campo: anche l’arbitro Rocchi quando, rivolto al team manager del Lecce, ha chiesto chi fossero quelle persone che gli stavano urlando che quello di Bonazzoli era stato un gesto volontario, altro che. Come se non avesse altro a cui pensare.

Ecco, pensando anche alla qualità umana dei dirigenti, a partire dal presidente Saverio Sticchi Damiani, viene da dire che non possiamo spostare sempre oltre il limite della sopportazione: possiamo essere “poveri”, marginali perché viviamo in un lembo di Paese difficile da raggiungere, non indispensabili alle trame di palazzo. Ma per stupidi non vogliamo passare, questo proprio no: le pacche sulle spalle se le tengano pure, lorsignori delle istituzioni calcistiche. La pazienza non è infinita e abbiamo gli occhi per vedere quanto il calcio di oggi non sia più quello sport di cui ci siamo innamorati, ma una specie di sceneggiatura con tanto di protagonisti, comprimari, regie e polemisti di professione – un Truman Show, insomma -. E se ancora in tanti ci crediamo, o facciamo finta, è perché è una passione che genera dipendenza e non è facile liberarsene. Forse in serie B circola un’aria ancora respirabile, quella del calcio autenticamente italiano e non del prodotto mediatico a uso e consumo di un pubblico sempre più di plastica. Come quello che fa la fila davanti a un centro commerciale.

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