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Il Covid-19 avanza in Europa: la testimonianza di un leccese a Lisbona

Insegnante e traduttore, Marcello Sacco vive da 25 anni nella capitale lusitana. Nelle sue parole le ansie e le speranze di un paese dove la crisi finanziaria del 2011 ha avuto un forte impatto sul sistema sanitario

LECCE - Gli italiani all'estero seguono questa crisi sanitaria mondiale come sintonizzati su due canali: uno è italiano, appunto, l'altro è del Paese in cui vivono. L'effetto somiglia un po' a quello di una partita di calcio vista in streaming su due piattaforme digitali diverse: la notizia del gol arriva sempre un po' prima, grazie alle urla del vicino con la connessione più veloce. Stavolta, però, non sono grida di vittoria, bensì di sconfitta.

Anche in Portogallo l'esperienza-pilota dell'Italia ha avuto il suo bel peso nel determinare le decisioni politiche delle ultime settimane, ma forse anche nel ritardo con cui quelle stesse decisioni sono state prese. All'inizio si è pensato – e non erano solo discorsi da barbiere, ma autorevoli affermazioni pubbliche – che il caos italiano fosse frutto della nostra caotica organizzazione sociale e della nostra struttura sanitaria deficitaria, senza badare al fatto che la débâcle avveniva proprio nella regione che ospita eccellenze di livello europeo e mondiale. Non è del tutto assurdo ipotizzare che, se il primo impatto devastante della malattia si fosse avuto in altri paesi più prestigiosi, l'effetto deterrente sarebbe stato più forte e immediato. Di certo c'è che le prime misure, anche in Portogallo, sono arrivate alla spicciolata, con università e scuole private che, forti della loro autonomia, chiudevano già prima del 12 marzo, data del primo decreto governativo, non a caso giunto quasi in concomitanza con il famoso discorso di Macron alla Francia e dopo il parere perlomeno ambiguo e attendista, se non addirittura contrario, degli esperti del ministero della Salute.

Eppure molti portoghesi, e moltissimi italiani residenti in Portogallo, quelle  misure le chiedevano da giorni e in qualche modo, del tutto autarchico e casereccio, già le osservavano. Perché, se questo coronavirus passerà alla storia come il primo virus della globalizzazione, bisogna aggiungere che anche il contagio delle notizie si è esteso con la stessa rapidità, contraddicendo subito chi, nei rispettivi paesi, ripeteva ancora che era solo un'influenza.

Il risultato è che in Portogallo la malattia si è diffusa più tardi, ma con una velocità d'azione molto simile e spaventosa, ed è probabile che i numeri ufficiali non corrispondano alla realtà. Però c'è ancora qualche buona notizia da cercarsi con il lanternino. Ogni giorno si aspetta il bollettino di mezzogiorno e ci si attacca a ogni barlume di speranza. La curva epidemiologica cresce, è vero, ma cresce meno, e i morti (pare brutto dirlo per chi se n'è andato, però è la crudeltà insita in questo tipo di conteggi) sarebbero ancora in linea con le percentuali realisticamente più prevedibili. Per l'esattezza, al 25 marzo abbiamo circa 3000 positivi e 43 decessi. Il nostro bicchierino mezzo pieno, insomma, sono le curve crescenti ma "non troppo" e il fatto che solo una sessantina di malati avrebbe attualmente bisogno della terapia intensiva; cifra da osservare da vicino, poiché da essa dipenderà la resistenza di un servizio sanitario nazionale reduce da un'altra crisi mondiale, quella del debito sovrano, che in Portogallo ha significato un quasi tracollo finanziario nel 2011, l'intervento da 78 miliardi da parte della troika Fmi-Ue-Bce e la rispettiva politica di austerità e tagli alla spesa.

lisbonaverticale-2Resta ora da capire che cosa succederà nelle prossime settimane. Anche qui notizie nefaste e incertezze legislative hanno generato eccessi comportamentali utili forse agli studiosi di etologia umana, ma non per chi si affanna a combattere il virus e la sua straordinaria capacità di propagazione. Alcuni sono corsi a fare incetta di carta igienica (oggi introvabile quasi più dell'amuchina e delle mascherine), altri si sono fiondati al mare, tanto che perfino la Federazione Portoghese di Surf ha dovuto emanare un comunicato in cui si specificava che la dichiarazione dello stato d'emergenza del 19 marzo scorso implicava anche la proibizione della loro attività sportiva preferita. E oggi, a pochi giorni dall'entrata in vigore di quell'emergenza, che a molti ricorda i tempi non remoti della dittatura e della fase più conturbata della Rivoluzione dei garofani, le televisioni trasmettono immagini delle grandi città completamente vuote, sebbene poi ci scappi sempre uno scoop dalla spiaggia, una cittadina più amena e solare dove le persone pensano: in fondo che male c'è? È solo una scappatella, un'infrazione minore alla regola della quarantena.

Come i no-vax, che si fanno scudo dell'immunità di gregge quando i vaccini sono disponibili, forse anche queste piccole greggi al pascolo sulla sabbia, sotto il primo sole di primavera, si gioveranno della maggioranza che, in mancanze di cure, se ne sta rintanata a casa e taglia i ponti al germe. Ma questo e altro lo scopriremo solo nei tanti comunicati di mezzogiorno che ancora ci separano dall'agognato picco e conseguente rientro del contagio.

(Marcello Sacco è nato a Lecce, ma vive da 25 anni a Lisbona. Il suo libro più recente è Deviazioni. Storie di un italiano a Lisbona, Tuga edizioni)

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