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Martedì, 23 Aprile 2024
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“I problemi della Lombardia sono anche i nostri: guardia alta”

Alberto Fedele dirige il Servizio di Igiene e Sanità Pubblica, incaricato di fare i tamponi e di tracciare i contatti sospetti di Covid-19. In un mondo iperconnesso, spiega, il Salento non può sentirsi una bolla

LECCE – Dei circa 13mila tamponi fatti in provincia di Lecce dall’inizio dell’emergenza per l’epidemia di Covid, molti recano il timbro del Servizio di Igiene e Sanità Pubblica della provincia di Lecce, l’unico avamposto del sistema sanitario, insieme al 118, ad effettuare incursione in territorio nemico, entrando per esempio nelle case dove vi era un caso sospetto di infezione da nuovo coronavirus. Con il direttore, Alberto Fedele, abbiamo affrontato una serie di questioni centrali sia nella ricostruzione delle scorse settimane, sia nella prefigurazione degli scenari del futuro prossimo (precedente di qualche giorno è, invece, l'intervista a Giovanni De Filippis, direttore del dipartimento di Prevenzione, cui il Sisp fa capo).

Su tamponi e test tutti hanno detto la loro. Forte è stata la richiesta di un utilizzo a tappeto e si è ingenerata la convinzione che fossero la panacea di tutti i mali. Ricominciamo daccapo, direttore, come stanno le cose?

“In linea di massima gli esami di laboratorio vanno eseguiti per un sospetto diagnostico: se io ho un disturbo, di qualunque tipo, il medico fa una valutazione clinica, ipotizza alcune possibili cause e cerca di fare diagnosi. Salvo che non ci siano segni che non lasciano dubbi - e che noi chiamiamo patognomonici – il medico si orienta attraverso esami di laboratorio. Nel caso delle malattie infettive, laddove ci siano sintomi comuni a più patologie, le possibilità sono normalmente due: o si cerca l’agente patogeno, cioè il microrganismo che causa la malattia, nei liquidi biologici o negli organismi in cui elettivamente va ad annidarsi, oppure si va alla ricerca degli anticorpi, se i tempi lo consentono, per avere la prova che l’organismo sta in quel momento reagendo contro l’infezione. Nel caso del Covid è la prima strada quella che mi interessa: se trovo il virus, ma in realtà anche se non lo trovo, faccio ulteriori accertamenti, come una radiografia toracica, e mi faccio un’idea: teniamo presente, infatti, che la prova del tampone può rivelare un falso negativo, mentre quella del falso positivo è già una ipotesi più remota. Se io voglio capire, nel caso di Sars Cov 2 se ho la malattia, devo quindi fare il tampone. Se invece cerco gli anticorpi, vuol dire che stiamo già in uno stadio più avanzato perché significa che l’organismo ha già iniziato a reagire verso quel virus e, a seconda della classe di anticorpi, posso fare un ragionamento per capire quanto tempo è trascorso dall’inizio della malattia”.

Dal singolo caso a una scala più larga, come si procede?

“Per quanto riguarda la popolazione sana, bisogna capirsi su qual è la finalità che ci poniamo di raggiungere: fare i test a tappeto a cosa serve? Due sono le opzioni: scovare gli asintomatici o le persone con sintomi lievi oppure vedere quanto il virus ha circolato perché potrebbe essere che i casi che abbiamo accertato siano solo la punta di un iceberg. La prima scelta prevede il tampone, la seconda il test sierologico. Come sanità pubblica la prima strada è quella che stiamo percorrendo perché oggi siamo nella condizione di intervenire rapidamente partendo dai soggetti positivi e circoscrivendo i contatti correlati, andare a fare loro il tampone, in genere dopo il periodo di osservazione e solo in determinate circostanze subito. I risultati si vedono perché sono il frutto sia del lockdown sia dell’attività di tracciamento dei casi. Stiamo continuando a farlo, anzi abbiamo allargato la platea perché abbiamo i macchinari, abbiamo i reagenti, quindi ci possiamo permettere, diciamo, qualche lusso in più”.

Dei test sierologici cosa mi dice?

“Per i sierologici di deve essere una motivazione diagnostica alla base, cioè la volontà del medico di comprendere una sintomatologia magari generica e prolungata nel tempo o di verificare un falso negativo, come un caso di recente accaduto. Se dobbiamo procedere per motivi di sanità pubblica, dobbiamo fare un vero e proprio studio, su basi scientifiche. Per esempio, può servire per capire se in un comune con zero casi sia davvero andata così, allora individuo un campione significativo, magari per le fasce di età più colpite, suddiviso tra donne e uomini, e vado a cercare gli anticorpi: se non ne trovo è la prova che in quella zona il virus non ha circolato, se ne trovo significherà invece che in quel comune, pur senza casi sintomatici, il virus c’è stato e avremo una stima anche della percentuale. Ma se una persona è in buone condizioni, ma magari è ipocondriaco, che si fa dopo che il test ha messo in evidenza gli anticorpi? Non si arriva da nessuna parte così perché la presenza di Igg testimonia una infezione datata: se questa persona vuole togliersi il dubbio, vada nei laboratori che abbiamo autorizzato, ma non ha senso mettere a carico della collettività in maniera impropria oneri dettati dalla curiosità del singolo”.

In vista di una seconda ondata, ritenuta oggi probabile, quali sono gli insegnamenti più preziosi della prima?

“Uno dei possibili scenari presi in esame è quello della seconda ondata: storicamente nelle grandi pandemie si è verificata. Potrebbe anche non essere così perché questo virus è molto peculiare: la prima Sars si spense spontaneamente, questo probabilmente non lo farà perché sta cominciando a circolare più intensamente nelle aree finora poco interessate, come per esempio l’America Latina, dove non per coincidenza sta arrivando l’inverno, con le condizioni di temperatura, di secchezza dell’aria, favorevoli alla circolazione del virus. Questo lascia presupporre che in autunno ci possa essere una seconda ondata. È stata una prova pressante, l’esperienza vissuta ci ha insegnato che laddove hanno funzionato le attività di prevenzione, di individuazione rapida, di assistenza territoriale, le conseguenze sono state meno pesanti. Se noi interveniamo prima con le misure fisiche – evitare luoghi affollati, distanziamento -, con la sensibilizzazione dei cittadini che hanno una memoria recente di quello che è accaduto, sperando non sia una memoria labile, e con i servizi territoriali in modo che siano efficienti da subito per individuare i casi e isolarli, probabilmente riusciremo ad arginare ancora meglio la seconda ondata”.

A proposito di assistenza sul territorio: ce ne è voluto di tempo perché partissero le prime Usca, alla battaglia contro il Covid in Puglia è mancata un’arma.

“Lei ha perfettamente ragione, del resto l’esperienza del Veneto è una prova al contrario. Dei casi rimasti a domicilio siamo rimasti l’unico interlocutore quotidiano, abbiamo fatto anche da supporto psicologico. Qui paghiamo lo scotto di due fattori: il primo è il ritardo nell’attivazione dell’assistenza delle cronicità, cosa che altre regioni come il Veneto avevano già e quindi è bastato loro attrezzare queste unità territoriali per dare un valore aggiunto significativo e diminuire la pressione sugli ospedali, che non è cosa da poco. L’altro fattore è la carenza dei dispositivi di protezione individuale e qui si apre un altro capitolo che ha visto la crisi del sistema Italia, ma oserei dire di quello internazionale. C’è poco da dire, è un poco l’effetto della globalizzazione: tutti forse dimenticano che nella prima ondata dell’epidemia in Cina eravamo noi a inviare i dpi che, prodotti in quel paese, venivano intercettati dalle comunità cinesi in Italia e inviate ai parenti, a significare che lì c’era una carenza che poi si è verificata in altre nazioni. Sono dispositivi a basso costo, che non è conveniente produrre, quindi abbiamo delegato la produzione alla Cina che però non può soddisfare il fabbisogno mondiale in una fase di pandemia. La riconversione di altre aziende è un affare complesso che fa alzare i costi. Questa carenza si è ripercossa sui livelli assistenziali perché non si possono mandare allo sbaraglio le persone, compresi i medici: ricordiamo che gli operatori sanitari morti sono stati più di 250 e poi ci sono gli ammalati, tra cui alcuni medici di medicina generale di Lecce che sono risultati positivi. Anche questo spiega la ritrosia ad assistere a domicilio i pazienti”.

È preoccupato per gli assembramenti e per la disinvoltura di alcuni atteggiamenti, come documentano foto e video in tutta Italia?

“Sono moderatamente preoccupato, perché io non ho memoria di camion dell’esercito che trasportano salme per deceduti di influenza: questo lo dico perché si è discusso molto sulla mortalità, sul fatto che in fondo anche le influenze stagionali direttamente o indirettamente causano migliaia di morti, ma è evidente che in alcune zone del Paese le cose non sono andate affatto bene. Poi magari in altre abbiamo compensato con meno vittime per incidentalità stradale, grazie al lockdown. Ora ci viene incontro la bella stagione, ma non dobbiamo abbassare la guardia. Ricordiamoci che il virus può adattarsi a nuove condizioni. Quello che mi preoccupa di più non sono i comportamenti qui da noi – sebbene quella famosa foto presente anche sulla bacheca del sindaco è significativa, è molto meglio sparpagliarsi per la città -, quanto quello che accade in Lombardia e Veneto, le regioni che hanno pagato lo scotto peggiore. Sarebbe pesante se si dovessero ripetere le scene sui Navigli o quelle che hanno fatto sbottare anche Zaia: pensiamo ai nostri scambi continui con quelle aree, che tra l’altro sono la locomotiva d’Italia, dove possono esserci focolai che poi si riverberano anche da noi. Non dobbiamo pensare al sole, al mare e al vento che sono il nostro scudo spaziale contro questa malattia. La globalizzazione ci ha insegnato che il mondo è unico ambiente e che il problema della Lombardia o del Veneto è un problema anche nostro. Intanto creiamo le condizioni per essere una bolla: i dati ci dicono che la provincia di Lecce è la seconda meno colpita della regione, dopo quella di Taranto, in rapporto alla popolazione e se non ci fossero stati quei due focolai – nella Rsa di Soleto e nell’ospedale di Copertino – sarebbe andata ancora meglio. In fondo, praticamente tutti i casi primari che abbiamo avuto qui sono figli di settimane bianche e del Carnevale”.

L’approccio terapeutico maturato nei mesi scorsi ci dà maggiore fiducia per il futuro?

“Abbiamo un armamentario più ricco, e non a caso uso questa espressione: non dobbiamo, infatti, focalizzarci solo su un elemento, l’eparina o il plasma, perché faremmo un errore. Avere, come oggi abbiamo, un pannello di farmaci sui cui sono stati fatti lavori scientifici a livello internazionale è certamente un’arma in più in questa battaglia. Poi abbiamo la disponibilità delle terapie intensive perché tutte le regioni, anche quelle che sembravano le meno preparate, hanno dato in condizioni di emergenza un colpo di reni per organizzarsi in maniera appropriata. Stiamo cercando di recuperare il plasma per i casi meritevoli di questa terapia, stiamo selezionando i guariti anche qui a Lecce, stanno andando avanti le sperimentazioni sui farmaci. Poi sul fronte della prevenzione le misure si vanno calibrando, perché nella fase emergenziale si possono fare errori: nella fretta sono tutti professori ma poi quando bisogna scendere sul pratico e confrontarsi con le necessità di tutti non è facile. Infime aspettiamo il vaccino che dovrà essere pronto in milioni di dosi: serve prima che la ricerca ci dia delle conclusioni sull’efficacia e poi tutta l’infrastruttura che deve essere messa su. Non parliamo di un vaccino per i nuovi nati, parliamo di un vaccino per tutti e le aziende non sono pronte”.

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