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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

Tragedia della “Kater i Rades”: dopo 16 anni la linea di comando ancora nell’ombra

Il 28 marzo del 1997, nel Canale d'Otranto, una motovedetta albanese entrò in collisione con la nave "Sibilla" della Marina italiana. Le vittime accertate furono 57, soprattutto donne e bambini. Molti gli interrogativi aperti dopo due gradi di giudizio

LECCE - Non sono bastati sedici anni e due gradi di giudizio per scrivere la verità sulla tragedia della motovedetta albanese “Kater i Rades”, che il 28 marzo 1997, la sera del "Venerdì Santo", entrò in collisione, nelle acque del Canale d'Otranto, con la nave militare della Marina italiana “Sibilla”, provocando una vera strage. Una delle più grandi tragedie avvenute in mare, frutto delle politiche di respingimento. Cinquantasette le vittime accertate, ventiquattro i dispersi, anche se con ogni probabilità furono almeno un centinaio, le persone a perdere la vita e i cui corpi, mai ritrovati, furono avvolti dalla tomba liquida dell’Adriatico.

La “Kater i Rades” (letteralmente “Battello in rada”), una piccola motovedetta militare di produzione russa lunga poco più di 21 metri e allestita 35 anni prima per il trasporto di solo nove marinai, era salpata alle 15 del 28 marzo 1997 dal porto albanese di Valona con oltre 100 persone a bordo, tutti clandestini di nazionalità albanese, in alcuni casi intere famiglie, in fuga dalla grave crisi economica e politica che aveva travolto l'Albania. Uomini, donne e bambini che avevano pagato quel viaggio circa 800mila lire a testa. Gente in fuga da un’Albania dilaniata dalla guerra civile e da una crisi economica devastante.

Da alcuni giorni, però, l'Italia aveva predisposto, in base anche a un accordo con l’Albania, un blocco navale, nome in codice "Operazione bandiere bianche”, schierando diverse navi militari nel Canale d'Otranto con il compito di bloccare le cosiddette “carrette albanesi”. La “Kater i Rades” aveva da poco doppiato il capo dell'isola di Saseno, quando fu intercettata dalla fregata italiana “Zeffiro” che navigava in acque albanesi e che le intimò di invertire la rotta. Alla 17.30, la motovedetta fu “presa in consegna” da un'altra nave italiana, la “Sibilla”, che cominciò ad avvicinarsi al naviglio albanese. Secondo le disposizioni del Governo Prodi vigenti in quei giorni (trasmesse il 25 marzo ma ratificate solo il 2 aprile), la nave della Marina militare doveva svolgere delle “manovre cinematiche di interposizione”. Cercare, cioè, seppur nel pieno rispetto delle norme previste dalle leggi internazionali della navigazione, di intercettare l’imbarcazione proveniente dal “Paese delle aquile” e di farla tornare indietro. A complicare il tutto furono anche le cattive condizioni del mare.

Secondo la difesa del comandante Laudadio, gli avvocati dello Stato Giovanni de Figuereido e Giovanni Gustapane, la “Sibilla” si limitò a procedere con una rotta lineare, mantenendosi a circa 20 metri dalla “Kater”, lasciando libera, come previsto dai codici marittimi, la rotta verso l’Italia. Secondo i legali, infatti, l’unico responsabile della tragedia fu il pilota della motovedetta albanese, che violò le norme della navigazione, compiendo una serie di manovre errate. Una teoria accolta anche in appello dall’accusa, rappresentata dal procuratore generale Giuseppe Vignola, secondo cui fu proprio il comandante della “Kater i Rades”, dopo essere stato intercettato, a compiere una serie di manovre pericolose per sfuggire ai controlli. L'ultima sarebbe avvenuta a circa trenta metri di distanza dalla “Sibilla”: la motovedetta avrebbe sterzato prima a sinistra e poi improvvisamente a destra cercando di passare davanti alla nave italiana.

La "Kater i rades", però, sembra non aver mai virato verso la Sibilla, che dopo un lungo insensato inseguimento finì per travolgere la carretta albanese. La tragedia si concretizzò alle 18.57, a circa 35 miglia da Brindisi: la prua della nave Sibilla entrò in collisione con la piccola imbarcazione albanese. Nell'impatto molte persone finirono in mare. Poco dopo la motovedetta albanese si capovolse, affondando alle 19.03. A salvarsi furono solo in solo 34. Tantissime le vittime, soprattutto donne e bambini che, stipati sotto coperta, non riuscirono a sfuggire a una morte atroce.

In primo grado Il Tribunale di Brindisi aveva condannato, con l'accusa di “naufragio e omicidio colposo plurimo”, a 3 anni di reclusione il comandante della Sibilla, Fabrizio Laudadio, e a 4 anni il comandante albanese della Kater, Namik Xhaferi. Laudadio era stato anche condannato al risarcimento dei danni alle parti civili, compreso lo Stato albanese. Nel giugno scorso, dopo oltre 14 ore di camera di consiglio, i giudici della Corte d’Appello di Lecce (presidente Roberto Tanisi), hanno condannato Laudadio a due anni e quattro mesi di reclusione, e Namik Xhaferi a tre anni e dieci mesi. La riduzione di pena scaturisce dal fatto che uno dei capi d’imputazione, quello delle lesioni colpose, è ormai prescritto. Laudadio e la Marina militare italiana sono stati anche condannati a risarcire con circa 4 milioni di euro le parti civili (cinquantadue), cioè i parenti di alcune delle vittime.

La costituzione di alcune parti civili è stata respinta perché tardiva o incorretta. Cifre ritenute troppo esigue dalla stampa albanese e dall'opinione pubblica del Paese. Verdetti che non hanno accertato la verità, a cominciare dalla cosiddetta “linea di comando” di quel tragico venerdì Santo. Stabilire, cioè, chi ordinò alle navi militari di fare in modo che, quasi a ogni costo, quell’imbarcazione di civili inermi non raggiungesse le nostre coste. Un naufragio prodotto dalle assurde e irragionevoli politiche di respingimento e blocco navale, utili solo a spezzare vite e sogni di chi ha cercato di inseguire la speranza di un’esistenza migliore. Anche quest’anno, come ogni 28 marzo, i fiori sono tornati a galleggiare nella baia di Valona, per ricordare le vittime di quel naufragio ed essere inghiottiti, come quei corpi sedici anni fa, dalle onde del buio mare.

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