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Cronaca

Confermata la condanna per la falsa avvocatessa leccese 51enne

La Corte d’Appello non cambia di una virgola il verdetto emesso nel primo processo per Paola Pittini: due anni e risarcimento del danno alle vittime per 26mila euro

LECCE  -  Fregiandosi del titolo di avvocato, sostenne una ventina di procedimenti civili davanti ai giudici di pace di Lecce e Nardò, e si occupò anche di una richiesta per il riconoscimento di un’indennità integrativa speciale sulla pensione di un anziano alla Corte dei Conti di Bari. Ma Paola Pittini, leccese di 51 anni, non è mai stata iscritta all’Ordine. Questa la verità emersa nel processo di primo grado e confermata nei giorni scorsi dalla Corte d’appello di Lecce, presieduta dal giudice Vincenzo Scardia: due anni di reclusione per esercizio abusivo della professione e falso, più risarcimento alle parti civili, 10mila euro al foro di Lecce (con l’avvocato Stefano De Francesco), per i danni d’immagine, e 4mila ciascuno per il pregiudizio economico e materiale provocato a quattro clienti (assistiti dagli avvocati Giuseppe Milli, Francesca Conte e Piero Romano), le cui cause non andarono a buon fine o comunque non andarono a termine perché la donna fu “smascherata”.

L’imputata non ha potuto, inoltre, beneficiare della sospensione della pena, perché nel suo curriculum, dove non compare l’iscrizione all’Albo, ci sono altre condanne, una delle quali per calunnia e falso divenuta irrevocabile il 15 luglio 2004. La verità venne a galla nel 2009: fu il legale di una compagnia assicurativa, contro cui era stata avviata una pratica, che, dopo averla invitata più volte, invano, a esibire copia del tesserino, interpellò l’Ordine degli avvocati di Lecce (al tempo presieduto da Luigi Rella) che, a sua volta, dopo le verifiche del caso presentò un esposto.

Durante il processo di primo grado, la donna riferì al giudice della seconda sezione penale Marcello Rizzo di aver conseguito la laurea nel 1992, di aver fatto pratica forense per due anni, e di non essere riuscita a superare l’esame di Stato nel 1996. A suo dire, dieci anni dopo, iniziò a collaborare prima con uno studio legale, poi con un altro, e di aver svolto solo attività di patrocinio alle giurisdizioni minori: “Io dovevo svolgere un’attività più di consulenza che di altro, invece è capitato che abbia fatto delle cause davanti al giudice di pace e solo ed esclusivamente davanti al giudice di pace. Perché… va bene, non voglio dare responsabilità a nessuno, però, comunque mi era stato detto che avendo il patrocinio alle giurisdizioni minori lo avrei potuto fare. Sicuramente ho sbagliato nel momento nel quale mi sono qualificata come avvocato e non come procuratrice o come dottoressa ma… va bene, è stato un errore un po’ così”.

L’abilitazione al patrocinio alle giurisdizioni inferiori ha una durata di sei anni e stando ai calcoli del giudice Rizzo, che partono proprio dalla data di laurea della donna, ammesso fosse stata iscritta nel registro dei praticanti, avrebbe potuto esercitare il patrocinio al massimo sino al 2001. “Invece, risulta documentalmente, che l’imputata, non solo tra il 2006 e la fine del 2008 predispose e depositò atti di citazione e ricorsi dinanzi al giudice di pace e comparve nelle relative udienze, ma in tutti gli atti da lei redatti e in tutti i verbali in cui comparve si fregiò del titolo di avvocato. Inoltre, come tale si presentava ai clienti, o gli amici e conoscenti”, si legge nelle motivazioni della sentenza emessa il 22 settembre 2016. Ora non resta che attendere vengano depositate quelle del secondo verdetto, pronunciato nei giorni scorsi, e in base alle quali, la difesa (rappresentata dall’avvocato Benedetto Scippa), valuterà se giocare l’ultima carta in Cassazione.

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