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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Cronaca

"Il sacrificio di mia moglie per Mattia e una sentenza che non trovo giusta"

Il marito di Zaira cresce un figlio di 11 anni. "Mai ricevuto scuse". E per la strada della morte chiede maggiore sicurezza

LECCE – La scrittura fredda e impersonale della cronaca giudiziaria non rende quasi mai il senso di una tragedia. E passaggi puramente abbozzati si prestano in qualche caso a doppie o triple chiavi di letture. Eppure, dietro a un fatto, qualsiasi fatto, ci sono vite. Vite a volte  spezzate in un istante, come quella di Zaira, che ha fatto da scudo a suo figlio, in un gesto istintivo di protezione - il più materno dei gesti -, che toglie il respiro in gola soltanto a ripensarci. E vite che non saranno più le stesse, come quella di suo marito, Stanislao, 40 anni, e del loro bambino, Mattia, 11 anni.

Lui, il papà, lo si legge negli occhi che oggi vive soltanto per Mattia, nella consapevolezza di un passato impossibile da rimuovere e di un futuro al quale, comunque, guardare con speranza. Almeno per il bambino. Che presto sarà un ragazzo. “Si sta riprendendo bene”, dice. “Ma io so che la sua vita, comunque, è segnata. Anche perché era lì, ha vissuto tutto sulla sua pelle”.

“Una sentenza che non trovo giusta”

Stanislao Cippone, leccese, cercava “giustizia e rispetto per il sacrificio di mia moglie”. “Un sacrificio da martire”. Ieri, la donna che era al volante dell’auto nel giorno dell’incidente fatale, ha patteggiato due anni e nove mesi dopo un primo respingimento dell’istanza presentata dai suoi legali. “Ma non trovo la sentenza giusta”, commenta oggi. “Non per infierire, ma ha sbagliato e ha distrutto una famiglia. Secondo me è una pena molto bassa. Non voglio male a nessuno ed è ovvio che non sia uscita da casa per uccidere mia moglie. Ma se lei fosse stata attenta…”.

Stanislao non accetta certo di buon grado la questione della “semplice distrazione”. Non vuole che si banalizzi sul punto. E’ vero, nel sangue non c’erano tracce di sostanze stupefacenti o alcolici, e a quanto pare nemmeno il telefono, dissequestrato ieri stesso, ha concorso nella vicenda. Ma che disperazione nasce da una distrazione, cantava Lucio Battisti. E la sicurezza in strada, per lui, è oggi diventata più che mai un tormentone, una questione da porre come priorità sul piano dell’educazione degli automobilisti. Senza dimenticare cosa potrebbe fare un’amministrazione comunale per migliorare la viabilità e, se non annullare – cosa forse impossibile – almeno ridurre al minimo i rischi.

“Non sono certo usciti all’improvviso”

“Io rallento non solo quando passo vicino alle scuole – dice Stanislao -, ma anche vicino ai palazzi dai quali potrebbero uscire all’improvviso dei bambini. Che sono imprevedibili. Bisogna andare piano, perché all’occorrenza bisogna avere il tempo per bloccarsi”.

Stanislao torna così con la mente a quel giorno. Erano circa le 8 del mattino del 7 aprile de 2017. E spiega perché dal suo punto di vista non si sente appagato dalla sentenza. “E’ una mia opinione, ma mi domando se si sia tenuto conto di tanti elementi. Il sole era alle spalle, quindi la signora non poteva essere accecata. Era da sola in auto. E si trovava sulla corsia di sinistra, senza effettuare sorpassi. Mia moglie e mio figlio non erano certo usciti all’improvviso, ma avevano quasi finito di attraversare sulle strisce. Avrebbe dovuto vederli già da lontano, almeno da 300 metri. La visuale quel giorno era ottimale”.

Si torna così anche sul tema della velocità. Nell’ultimo tratto, “la perizia della scatola nera ha mostrato una velocità di 78 chilometri orari, diminuita, secondo me non poi di così tanto, man mano che si è avvicinata al punto dell’impatto, avvenuto a 56 chilometri orari”. C’era stato un rallentamento, ma non segni di frenata. “Dicono che il Gps non abbia bloccato le ruote”, aggiunge Stanislao. “Ma il punto è questo: si sa che c’è una rotatoria, ci sono le strisce pedonali, si è vicini a una scuola, con bimbi in una fascia dai 6 ai 10 anni, imprevedibili, che possono anche sfuggire dalle mani dei genitori da un momento all’altro”.

“Non si può andare a quella velocità”, insiste Stanislao. Che rimarca: “Dicono che l’aggravante in questi casi quando sia quando si supera del doppio il limite di velocità. E ora mi chiedo: è vero, il limite è 50, quindi non rientra nell’aggravante. Ma nei di pressi di strisce pedonali o rotatorie, non si deve comunque moderare il piede sul pedale?”

Un aggancio alla materia si può trovare, fra l’altro, nell’articolo 141 del nuovo codice della strada che, sulle norme di comportamento (titolo V, al comma 3). Recita: ‘In particolare, il conducente deve regolare la velocità nei tratti di strada a visibilità limitata, nelle curve, in prossimità delle intersezioni e delle scuole o di altri luoghi frequentati da fanciulli indicati dagli appositi segnali […]’.

“Mia moglie ha fatto da scudo, così mio figlio è stato scaraventato nell’aiuola. Il colpo è stato attutito, ma si è comunque fratturato una vertebra”, prosegue Stanislao, in un ricordo che per lui è senz’altro doloroso. “E non solo. Aveva appena attraversato una mamma con un altro bimbo. Si è rischiata una strage. Si è tenuto conto di tutto questo?”.

La sicurezza in strada, nodo cruciale

Così, ci si introduce anche in un altro argomento, quello della pericolosità di molte vie cittadine, proprio come viale Giovanni Paolo II. “Ci sono stati in diversi anni almeno sette morti. Qui si cammina veloce, ma mancano le soluzioni. I nonni vigili, per esempio – dice Stanislao - sono molto utili. E’ vero che sono volontari, che lo fanno per passione, ma, per esempio, se ne potrebbe collocare uno, visto il precedente, nel punto in cui è successo l’incidente, all’altezza dell’incrocio con via Pistoia. Dobbiamo forse rischiare di nuovo una tragedia? E il rischio c’è, mi creda. E’ una strada che ti porta ad andare veloce. Ecco perché reputo che occorrano anche i dossi alti. In via Pistoia, per paradosso, ci sono. In viale dello Stadio, no”.

La vita dopo la tragedia

Ma com’è la vita, dopo? “Sono colpito e non so quanto durerà. Forse per sempre. Si soffre tantissimo. Si soffre pensando, per esempio, che domenica è la festa della mamma. Mattia va a scuola, e se ne parla. Va al catechismo, e se ne parla. Sta con gli amici, ne parleranno. Lui non esterna molto. Non piange, ma si innervosisce”.

Il periodo dopo l’incidente è stato molto buio, un incubo in cui tutto è cambiato, all’improvviso. Anche perché Zaira non è morta subito. E’ stata una lunga, estenuante agonia di quaranta giorni. Al processo ha deciso però di non presentarsi parte civile. L’assicurazione ha risarcito ma lui non vuole che si generino equivoci, che qualcuno dica: “Hanno pensato solo e subito alla questione economica”.

“Mi dava fastidio anche il pensiero di affrontare una questione economica. Emotivamente, non ci riuscivo. Ero annebbiato. Mi sembrava di quantificare la vita di mia moglie. E ho lasciato carta bianca al mio avvocato. Gli ho detto: mi rimetto nelle tue mani, ma solo una cosa, fai in modo che non manchi nulla di materiale per il futuro di mio figlio, visto che già gli manca la cosa più importante. E lui ha deciso per questa soluzione. E’ stata una questione pratica e non volevo portare la storia alle lunghe con una costituzione di parte civile, provocare altro tormento, far avere altri problemi a mio figlio”.

“In quel momento pensavo solo a mia moglie, in coma. E a mio figlio, che ha avuto il busto per quattro mesi. Gli mancava la mamma, si sentiva sballottolato, non voleva più tornare a casa sua e nello stesso tempo non voleva stare senza di me. Io morivo dentro e sorridevo vicino a mio figlio, andando poi a trovare mia moglie in ospedale. Non sapendo se sarebbe sopravvissuta. Zaira me la sarei tenuta anche stesa nel letto, vegetale. Lo so, è puro egoismo. Ma eravamo una cosa sola. E lei lo era anche con sua sorella, con cui si toglievano appena 15 mesi. Sono cresciute insieme. Ci aiuta e fa il possibile, ma anche lei ha la sua famiglia, la sua vita, i suoi figli”.

“Non ho mai ricevuto delle scuse”

“Sa – aggiunge - io e mia moglie abbiamo avuto un’infanzia particolare. Per quanto riguarda me, mio padre ci ha abbandonato, mia madre è allettata, a causa di una malattia degenerativa. Quando abbiamo creato questa famiglia, abbiamo deciso che a nostro figlio non sarebbe dovuto mancare nulla. Ci amavamo tantissimo e non ci saremmo mai separati. Mai avremmo voluto soprattutto che a Mattia venisse a mancare l’affetto di uno di noi due. Purtroppo la vita ha voluto così”.

Ora, il padre si sta così concentrando solo sul figlio. “Facevo l’elettricista. Uscivo da casa alle 6 del mattino. Ma non posso più fare l’operaio, non posso dire a una ditta che devo portare mio figlio a scuola, fare la spesa, riprenderlo, fargli fare i compiti, portarlo alle attività sportive. Devo fare da mamma. Le difficoltà mi hanno portato a questo e non volevo creare altri traumi in mio figlio e dato che era impossibile conciliare gli orari di lavoro con quelli necessari ad accudirlo, ho trovato la soluzione per non modificare le due abitudini. Una volta a casa, ho fatto di tutto per ricominciare la routine. La psicologa che l’ha sostenuto mi ha detto che stiamo affrontando bene il percorso. Cerco di fargli fare tutto quello che faceva prima. Gli sta facendo bene”.

“Sa cosa mi spiace?”, conclude Stanislao. “Non ho mai ricevuto delle scuse. E non dico che per forza ci si debba parlare. Ci sono mille modi per farsi sentire, anche con discrezione. Una parola lasciata al parroco, una lettera nella posta”. Segnali che Stanislao ha atteso per un anno.

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