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Cronaca

"Questo è il Fazzi": viaggio nel mondo surreale della sanità pubblica

Dalle 17 alle 22 per una visita di una donna in gravidanza con dolori. E alla fine, la paziente dovrà rivolgersi a uno specialista. Odissee quotidiane dove si stenta a trovare anche una sedia a rotelle

LECCE – In un pronto soccorso il tempo sembra scorrere in maniera diversa rispetto al “mondo esterno”. In maniera lenta, lentissima, nell’attesa estenuante di codici, numeri, turni e visite, oppure velocissima, negli istanti che possono fare la differenza tra la vita e la morte, tra decisioni da prendere e valutazioni da adottare. La tempestività delle scelte, assieme all’appropriatezza, fa la differenza. Un micro mondo in cui convergono storie e destini, travolti dalle eccellenze e le carenze della sanità nostrana, tra grandi professionisti e soggetti inadatti.

Questo viaggio nel cuore dell’ospedale “Vito Fazzi” inizia poco dopo le 17, in un pomeriggio di tramontana, sotto un cielo indaco. Basta varcare le porte del pronto soccorso, però, per perdere ogni vena poetica. Il primo scoglio da superare, nella confusione tipica di ogni ospedale, è quello dell’accettazione. Una donna si trascina, tra evidenti fitte di dolore, allo sportello, dove deve spiegare sintomi e mali. Dopo aver registrato la paziente, l’addetta all’accettazione compila distrattamente (a mano) un foglio per una richiesta di consulenza specialistica in Ostetricia.

La donna, infatti, è incinta, status che dovrebbe assegnarle la priorità nonostante il codice verde. Qui, però, iniziano a palesarsi tutte le carenze del pronto soccorso. La donna, infatti, ha difficoltà a camminare raggiungere il secondo piano del nosocomio, ma manca una sedia a rotelle: “Vedete se in giro ne trovate una”, è la risposta surreale dell’operatrice. L’alternativa è attendere una barella, ma non si sa quando potrà essere disponibile (sia la barella che qualcuno per portarla). La paziente, allora, si trascina lentamente attraverso il lungo corridoio che porta all’ascensore per raggiungere i reparti. L’unico ascensore adatto a trasportare una sedia a rotelle è fuori servizio (gli altri sono riservati al personale dotato di chiave) e allora l’unica soluzione, grazie a una gentilissima infermiera che si offre di accompagnare la degente, è di utilizzare un “monta carichi”. “Questo è il Fazzi signora”, dice l’infermiera con un sorriso amaro.  

In Ostetricia-Ginecologia, per fortuna dopo una breve attesa, la giovane donna è sottoposta a visita ed esami che, seppur escludendo complicazioni alla gravidanza, non riescono a stabilire una diagnosi (il sospetto è che si tratti di un’ernia inguinale). Il medico decide allora di chiedere un’ulteriore consulenza a un chirurgo. Ed è allora che emerge il complesso e perverso paradosso di un meccanismo di stampo bizantino. La donna, infatti, seppur provata da dolori sempre più forti, deve tornare al pronto soccorso per essere poi indirizzata in Chirurgia. A questo punto decide di attendere la barella, ma in suo aiuto arriva un parente che, dopo essere tornato all’accettazione, è riuscito a reperire una sedia a rotelle con cui trasportare la paziente. Lungo i corridoi si incrociano mariti, padri e famigliari divenuti all’improvviso operatori socio sanitari.

Viaggiando nel ventre del Fazzi, la protagonista di questa odissea sanitaria, raggiunge la Chirurgia, dove il medico turno, tanto gentile quanto competente, esclude la presenza di un’ernia inguinale, chiedendo un’ecografia addominale, utile a chiarire la causa dei dolori. Ovviamente, inutile dirlo, bisogna tornare al pronto soccorso. Si torna dunque al punto di partenza. Poco dopo le 19, non senza difficoltà, tra rimpalli e imprecazioni, si arriva a una richiesta di ecografia.

La donna, che è sempre in gravidanza, avrebbe come detto priorità, ma ci sono due casi urgenti, quindi deve attendere: “State tranquilli, vi chiameranno appena possibile” la risposta, poco rassicurante del medico del pronto soccorso. Passa più di un’ora e dopo molte sollecitazioni e richieste, finalmente la paziente è indirizzata in Radiologia, dove un medico, piuttosto seccato, la accoglie con un “chi vi ha mandato qui?”. Poi, suo malgrado, ritira il foglio della richiesta e dice di attendere. In giro non c’è nessuno, eppure la donna deve aspettare altri 45 minuti (di sollecitazioni e vana ricerca del personale) prima di essere sottoposta all’ecografia: dell’ernia nessuna traccia. La paziente, esasperata, stanca e piegata dai dolori, decide di tonare in Ostetricia, dove il medico di turno le spiega che i dolori potrebbero essere causati da ciò che la sua collega, ore prima, aveva escluso.

Per abbandonare la struttura bisogna, ovviamente, ripassare dal pronto soccorso, dove la situazione è addirittura peggiorata. Ci sono decine persone, alcune in attesa da ore, pazienti adagiati sulle barelle, tutti accalcati nei corridoi, perché la sala d’attesa è lontana e si rischia di perdere il proprio turno, in un’aria pregna di umanità. Il sistema di attribuzione dei numeri (in base ai codici assegnati) praticamente non funziona e si mischia con quello dei “rientri”, di chi cioè è stato già indirizzato verso i vari reparti per una visita o consulenza specialistica e torna al punto di partenza. Una sorta di caos organizzato da girone dantesco. Il nuovo medico di turno al pronto soccorso, una giovane donna, sembra in preda a una crisi e dispensa frasi surreali chiedendo, ad esempio, a un signore anziano immobile su una barella: “Lei non riesce ad alzarsi?”.

La sensazione diffusa è quella di una dignità calpestata, come se ammalarsi e recarsi in una struttura sanitaria pubblica non sia un diritto ma una colpa. Sui volti della gente si scorge, più che rabbia, una rassegnazione di stampo borbonico, di ineluttabile sopportazione degli eventi, di un sistema che si può solo subire, non cambiare. L’unica speranza è di stare bene e non essere fagocitati da un mostro chiamato sanità pubblica.

Sono già passate le 22 quando la protagonista di questa odissea lascia l’ospedale. Nella notte scura come la pece, la foschia avvolge l’immensa struttura, in uno scenario quasi futuristico. I dolori non sono scomparsi, la diagnosi è incerta, non resta che sperare in una visita da uno specialista. 

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