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Cronaca

Suicidi in carcere, quel dramma silenzioso che si finge di non vedere

A Lecce sono due in sette mesi. Gli psicologi denunciano: "Sempre meno ascolto e più psicofarmaci". I sindacati di penitenziaria: "Sovraffollamento". E' un sistema in tilt da tempo. Ma le soluzioni?

LECCE – Emerge un caso nelle cronache, poi non se ne parla più. Fino all’episodio successivo. In un mondo contemporaneo dove la tecnologia detta i tempi e ogni cosa si consuma in fretta, l’informazione non fa eccezione. Anzi. Così, anche molte tragedie finiscono per diventare solo freddi numeri da mettere in fila. Specie quelle che avvengono al chiuso delle carceri, da cui già per definizione filtra poco o nulla. Spesso si deve solo ai sindacati di polizia penitenziaria se emergono certe notizie, come i suicidi.

C’è pudore a parlarne per almeno due motivi: uno, perché si toccano inevitabilmente le corde di sentimenti profondi che coinvolgono intere famiglie. Due, perché vengono al pettine i nodi dei fallimenti delle istituzioni. Ma non parlarne, significa anche e soprattutto scansare il problema, dilazionare all’infinito i tempi per trovare una soluzione.

L'ultimo caso di pochi giorni or sono

Risale a soli quattro giorni addietro l’ultimo caso che riguarda proprio il Salento. Dopo una serie di episodi di violenza e soprusi ai danni di ex convivente e figlio di quest’ultima, un 44enne rumeno residente a Martano era finito in una cella di Borgo San Nicola, a Lecce. Affetto da un evidente stato di disagio psichico, forse sentitosi in trappola, magari roso anche dal rimorso (non sapremo mai quali sentimenti covasse) qui s’è tolto la vita di notte.

Per Antonio Di Gioia, presidente dell’Ordine degli psicologi di Puglia, vi sono almeno un paio di chiavi di lettura. Casi del genere vanno ricercati sia nel sovraffollamento, e qui i vari sindacati di polizia penitenziaria stanno battendo il chiodo da anni, sia nella carenza di terapia psicologica. Una cosa è certa: si smarrisce il senso stesso del carcere nell’accezione moderna, come luogo per la rieducazione, se un detenuto si condanna a morte da solo, in una nazione dove l’ultima esecuzione capitale, prima dell’abolizione per i reati commessi in tempo di pace, risale al 1947 (solo nel codice penale militare di guerra la misura estrema è rimasta in vigore fino al 1994).

C’è un’associazione, Antigone, presieduta da Maria Pia Scarciglia, che sul fronte delle problematiche in carcere si batte da anni. Di Gioia è d’accordo con le denunce da lei fatte nel tempo: “I suicidi sono l’espressione di un’emergenza”. E ricorda che “le ore di terapia psicologica sono troppo poche. Facile, in questo contesto, che maturino i suicidi”.

"Psicofarmaci invece dell'ascolto"

“I suicidi - prosegue Di Gioia - sono la più drammatica espressione di un’emergenza, si sta sostituendo l’ascolto dei detenuti con l’abuso di psicofarmaci. Oggi circa 600 psicologi, impegnati negli istituti penitenziari italiani, hanno a disposizione 30 minuti all’anno per ciascun detenuto: troppo pochi. Ci sono 20mila detenuti in esubero rispetto alla capienza degli istituti di detenzione e nonostante la crescita esponenziale non è stata rafforzata l’assistenza psicologica, anzi è stato ridotto l’orario di lavoro degli specialisti del settore. Come fa, allora, il carcere ad essere considerato un’istituzione in grado di riabilitare l’individuo da un punto di vista sociale e affettivo?”.

Per il presidente degli psicologi pugliesi “il sovrannumero non solo impedisce ma ostacola il recupero esistenziale dei detenuti, nei contesti sovradimensionati si realizzano strategie di competizione e di apatia, non certo di cooperazione. Bisogna partire dalla prevenzione, che dovrebbe attivarsi in una fase iniziale in cui si stabilisce il rischio del suicidio e nei casi critici una presa in carico del detenuto”. “L’articolo 27 comma 3, della Costituzione -  ricorda Di Gioia - afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, non al suo abbandono. Nel caso specifico, l’osservazione ha lo scopo di monitorare il comportamento del detenuto a contatto con la realtà penitenziaria per poter formulare poi un trattamento rieducativo personalizzato. C’è bisogno di un maggior numero di risorse per poter prevenire i suicidi, anche attraverso una formazione rivolta agli agenti di polizia penitenziaria”.

Lecce: secondo caso in sette mesi

Il giorno in cui è stato scoperto il suicidio a Lecce, Federico Pilagatti, segretario nazionale di una delle sigle sindacali della polizia penitenziaria, il Sappe ha ricordato che si è trattato del secondo in sette mesi per Borgo San Nicola. Ai primi di febbraio avvenne quello di un 59enne marocchino. Non certo una buona media. E la lista  si allungherebbe, se in tanti casi non fossero stati gli agenti a intervenire in extremis.  

“Fino a qualche anno fa ci si indignava, ci si interrogava anche sui mass media nazionali. Ora più niente, qualche riga nella cronaca  locale ed avanti il prossimo”, ha denunciato Pilagatti. “Eppure questo è l’ennesimo episodio di una tragedia continua che ha responsabilità molto precise, a partire da chi ha voluto consegnare le carceri italiane all’anarchia”. I suoi strali, lanciati contro l’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, e l’ex capo del Dap “che nei fatti hanno smantellato la sicurezza nelle carceri e l’attività di controllo e gestione dei detenuti”.

Qui torna il discorso sul sovraffollamento. “Da mesi se non anni, il Sappe denuncia la grave situazione di sovraffollamento del carcere di Lecce, che è arrivato a sfiorare  il 100 per cento, a cui fa da contraltare il minor organico di polizia penitenziaria che non consente di controllare e gestire  ormai più nulla, oltreché caricare i poliziotti penitenziari  di lavoro massacrante in violazione di norme e leggi dello stato italiano”. Morale: “Si sta perdendo il conto degli eventi critici e drammatici”.

Chi finisce veramente in carcere

Molto dura, a riguardo, la presa di posizione di Pilagatti, che ha definito le carceri “una discarica sociale dove buttare le anime ed i corpi degli ultimi". E fra questi, dei malati mentali e persone senza alcuna capacità economica. "Parliamo di decine di migliaia di persone”.

“Sì, perché questo è il carcere, ove  colletti bianchi e delinquenti matricolati riescono ad evitare di soggiornare grazie ai soldi che permettono difese legali che i poveri cristi si sognano, sfruttando tutte le possibilità che leggi inadeguate consentono”, ha aggiunto Pilagatti. “Senza dimenticare i tantissimi innocenti che trascorrono  periodi anche lunghi  in carcere, per poi uscire distrutti nell’anima e nel corpo”. Conclusione: “Diamo appuntamento al prossimo suicidio o pestaggio di poliziotto, sempre che interessi ancora a qualcuno”.

E’ una situazione di tale portata, che pochi giorni prima, a meno di 100 chilometri da Lecce, nel carcere di Taranto, si era registrato un altro suicidio di un detenuto che aveva manifestato problemi fin dall’accesso. Anche in quel caso, vigorosa protesta degli agenti penitenziari, consegnate alle parole di un altro sindacato, l’Osapp di Puglia, per una tragedia a loro dire inevitabile, viste le condizioni di lavoro.  E questo perché il detenuto “approfittando dell’ora d’aria dei compagni di cella si impiccava e purtroppo il pochissimo personale di polizia penitenziaria presente, che di fatto copre due terzi di posti di servizio contemporaneamente, ha potuto constatare il gesto ormai compiuto”. Dinamica identica a quella di tanti altri drammi.

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