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Venerdì, 29 Marzo 2024
Cultura

Terzapagina. "Lightning Bolt", rock conciso e calibrato firmato Pearl Jam

L'atteso ritorno della band di Seattle divide i sostenitori, che, non convinti dalla loro evoluzione "convenzionale", rimpiangono le sonorità degli esordi. Critiche in parte condivisibili, ma il disco è tutt'altro che un lavoro da buttare

Accostarsi a "Lightning Bolt", l'undicesimo album (calcolando anche Lost Dogs) dei Pearl Jam, la band di Seattle che ha rappresentato la storia del rock mondiale negli anni Novanta, è un esercizio di equilibrio, per più ragioni: come spesso accade per chi li ha apprezzati e conosciuti fin dalla prima ora, il rischio è quello di un atteggiamento pregiudiziale che toglie molto all'oggettività dell'ascolto, sia nel caso dell'acritica venerazione sia in quello dello stroncamento a priori.

"Erano meglio all'inizio" o "sono sempre gli stessi" non sono argomenti in assoluto, con buona pace di chi riduce la musica a queste semplificazioni. Fatte queste doverose premesse, l'album era atteso e preparato da una lunga campagna mediatica (come meritano in genere migliori), a quattro anni di distanza dal precedente lavoro. La domanda con cui si potrebbe inquadrare questo capitolo della saga Pearl Jam (parafrasando un album degli Afterhours) è "Hai paura del pop?".

Come accaduto in "Backspacer" (2009), infatti, il gruppo, guidato da Eddie Vedder (una delle voci più incredibili del rock) e composto da Mike McCready, Stone Gossard, Jeff Ament, Matt Cameron e Kenneth Gaspar, tenta, come già in passato, la contaminazione con suoni più leggeri, meno energici rispetto al passato grunge, senza tuttavia rinunciare a quest'ultimi. Non è un caso che l'album sia ricco di ballate. Qualcuno direbbe che sono più "commerciali" o addirittura "ruffiani", ricordando gli esordi in cui rifuggivano il ruolo da star ed erano "anti-commerciali" per definizione. Forse. Ora sarebbero alla ricerca di "un pubblico più vasto" (sarebbe di per sé un male?). Come accade praticamente a tutti. Le stesse osservazioni sono state mosse a mostri sacri come gli U2, Bruce Springsteen e persino i Pink Floyd, eppure nessuno ne discute la grandezza. Amen.

Il disco appare un tentativo di conciliare la propria tradizione rock (non in senso stretto come "grunge" delle origini) con ambientazioni "normalizzanti". Evoluzione, insomma. Qualcosa di simile accade in "No Code", dopo lo storico trittico (Ten, Vs., Vitalogy) che portò i Pearl Jam alla ribalta: fu spiazzante per molti, perché ritenuto "troppo versatile" col passaggio al cosiddetto "garage rock". La versatilità è entrata nelle corde emotive del gruppo già da tempo, eppure c'è chi ancora continua a rinfacciare loro la differenza rispetto al passato, tenendo conto che il rovescio della medaglia sarebbe che, se non fossero "duttili" musicalmente, oggi li si accuserebbe di proporre il "solito". 

Il giudizio, pertanto, si dovrebbe basare su quanto la versatilità della band, divenuta parte integrante del loro percorso (al di là delle valutazioni degli inossidabili del "classico"), influisca in positivo o in negativo sulla qualità degli album, e, in questo caso, di "Lightning Bolt". E allora, analizzare i pezzi all'interno è d'obbligo.

Nei primi sei brani (sui dodici totali) c'è una vigorosa ruvidità rock, con sfumature punk, che tiene banco soprattutto in "Getaway" e la furente "Mind your Manners" (il primo singolo intriso di auto-citazioni). Retoriche appaiono le alterazioni ritmiche di in "My Father's Son", brano sul rapporto tormentato tra padre e figlio. "Sirens", secondo singolo estratto, farà storcere il naso agli oltranzisti, ma si presenta come una ballata smagliante, calda nell'interpretazione e nella delicatezza sonora. "Lightning Bolt", la title track prova a coniugare potenza e melodia, con una bella intro, ma senza esplodere davvero.

Non convince totalmente "Infallible", pezzo che sfocia a tratti nel funk. Interessante nella sua rarefazione "Pendulum" (un dichiarato avanzo di "Backspacer"), mentre "Swallowed Whole" rappresenta una delle migliori proposte dell'album. Atmosfere blues in "Let the records play" e folk in "Sleeping by Myself" (estratta dall'album solista di Vedder, ma riproposta con un nuovo arrangiamento). Giocata molto sulla proprietà interpretativa è "Yellow Moon", che cede il passo a "Future Days", brano che chiude l'album con un arrangiamento piano-violino-chitarra e voce.

Chi ama il rock nudo e puro, insomma, sarà deluso da questo album, che pure pare calibrato, levigato, ma convenzionale. Non c'è da attendersi neanche il riferimento al passato che è stato, frugando nelle tracce alla disperata ricerca di qualcosa che rimandi al trittico di lancio della storia della band. Né appare credibile provare assimilare l'evoluzione della band ad influenze che riportano ai Pink Floyd.

È un album onesto, privo di spunti costanti (salvo rare eccezioni), non un capolavoro, d'accordo, ma che non può essere neanche liquidato come paccottiglia. Questa è una delle poche band che ha resistito al tempo e che, nella logica degli alti e bassi, ha proposto alcune tra le cose migliori in questi vent'anni di rock americano e mondiale. E anche nei momenti di minore ispirazione, il loro livello resta superiore alla media.

In buona sostanza, si tratta di un disco forse statico, ma schietto, fatto di un rock sintetico e spiccio (esattamente come definì il precedente il chitarrista Mike McCready), che ambisce alla normalizzazione del suono, alla pulizia dell'esecuzione, a toni più riflessivi, ad atmosfere più intime, col rischio di sembrare enfatiche. Ma senza smarrire le certezze, a partire dalle interpretazioni uniche di Vedder, che col suo timbro incide fuori dal comune sulla qualità finale. E non è per niente poco.

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