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Paura e memoria: il Salento terra dei migranti di ieri e di oggi. Intervista a Mario Perrotta

Tra una prova e l'altra, incontro con il pluripremiato attore e autore leccese che per la prima volta realizza una produzione nella sua terra d'origine: "Versoterra-A chi viene dal mare"

LECCE – Proseguono frenetiche le prove di "Versoterra – A chi viene da mare", la produzione teatrale sul tema dei migranti (e della memoria) che Mario Perrotta, pluripremiato attore e regista, ha assemblato e dislocato in quattro luoghi diversi del Salento.

Una sorta di no stop dal venerdì sera (30 settembre) alle domenica (1 ottobre): dall’alba a San Foca, davanti all’ex Cpt Regina Pacis, all’insenatura di Porto Selvaggio all’imbrunire, dal castello di Carlo V a Marittima di Diso, dove verrà messo in scena lo spettacolo Lireta, l’unico di tutte questo mosaico che continuerà a vivere in giro per i teatri italiani mentre tutto il resto non sarà replicato, a partire da Emigranti Esprèss, il live tratto dalla trasmissione radiofonica che Perrotta ha curato per Rai Radio2 per raccontare i viaggi delle speranza del treno Lecce-Stoccarda (consulta e scarica il programma Versoterra)

Una produzione di questo genere, che tanto interesse sta suscitando, che tipo di sforzo organizzativo comporta?

In questi giorni sto facendo il coordinatore, correndo da una parte all’altra, parlando con i musicisti, i danzatori, gli enti, con la squadra organizzativa, con i guidatori di gommoni che faranno da scafisti. Ci vuole un po’ di sana follia, altrimenti rinunceresti in partenza. Quando ne hai fatto uno come ho fatto io lo scorso anno sul Po e sai cosa comporta, se non sei un po’ folle non ne fai un secondo, ma se non sei folle e dici di essere un artista, allora c’è qualcosa che non va.

Il tema dei migranti è di stringente attualità ed è profondamente divisivo. Affrontarlo in questa maniera così totalizzante non significa anche assumersi il rischio di rimbalzare sul muro dei pregiudizi?

Un uomo di teatro che non si occupa del proprio presente è fuori del tempo. Non capisco dove si possano trovare stimoli altrimenti. E’ ovvio poi che chi vuole far teatro deve trasfigurare perché per fare la cronaca di ciò che accade non c’è bisogno del teatro. Io ho scelto di lavorare sulle nostre fobie nei confronti di chi oggi arriva qui, che sono identiche a quelle di chi ha accolto i nostri migranti salentini dal 1946 in poi solo per restare all’ultima ondata migratoria italiana, per non parlare di quello che accaduto prima, dal 1850 alla Seconda guerra mondiale. Lavoro sulle nostre paure e ho cercato di darle corpo. E’ un tema molto delicato, il rischio è di fare retorica, che tu sia a favore o contro. Spero di non suggerire risposte, ma di instillare domande. Mi basterebbe che uno uscisse con più interrogativi di quanti ne avesse prima dal percorso che suggerisco di fare nella sua interezza, perché il momento dell’alba, che è quello più difficile, è talmente forte, che non andrebbe perso, è la cifra di tutto il progetto.  

Come hai trovato Lecce e il Salento, dato che da 28 anni la tua vita è altrove?

Per alcuni versi, magari fosse stata così quando sono andato via a 18 anni, non sarei partito. C’è fermento culturale, ci sono occasioni perché nascano imprese culturali giovani. Quando sono partito io, nel 1988, eravamo veramente sotto Eboli: all’epoca l’unica realtà teatrale forte, che era Koreja, non era nemmeno a Lecce.

Da un altro punto di vista ho nostalgia di quel Salento un po’ pasoliniano di cui non è rimasto nulla. Siamo diventati una cartolina perpetua, con dietro tante mancanze, tanti bizantinismi: non c’è stato uno sviluppo lineare, certe cose sono rimaste molto indietro. Speriamo che l’accelerazione di alcuni settori, come la cultura, faccia da traino a tutto il resto e porti anche un atteggiamento più civile perché siamo molto indietro da quel punto di vista.

In questi anni sei cambiato tu, è cambiato il pubblico dal punto di vista antropologico: individualismo e frenesia quotidiana. Quali sono i rimedi contro il decadimento morale e culturale dei nostri tempi?

Penso che l’accelerazione verso una vita veloce è oramai un fenomeno di quasi tutto il mondo: l’avvento dei telefonini ci ha cambiato la vita così come quello dell’elettricità. L’accelerazione è frutto dell’incapacità dell’uomo di gestire i mezzi che crea: internet come la tv sono mezzi, per loro statuto sono neutri, dipenda da come li usi. Internet ha permesso la primavera araba, che pure è un processo immaturo che oggi ha i suoi colpi di coda, perché alla rivoluzione succede sempre la restaurazione, ma intanto è successo qualcosa.

Abbiamo accelerato nel nome dell’iper-reperibilità distruggendo la vera socialità. Non ci si vede più davanti a un bicchiere di vino guardandosi negli occhi Siamo roba scritta su internet, quello che io chiamo la sindrome della mutanda sporca: posso parlare d’amore a tanti chilometri di distanza con le mutande sporche tanto non mi vedi.

Tutto questo cambia il modo di fare teatro?

No perché il teatro ha una esigenza primaria, altrimenti non si dà teatro: dobbiamo essere in due, uno sul palco e uno giù che guarda. Il teatro è erotismo nel senso più alto: ci sono due corpi che vibrano, uno conduce le danze, l’altro si mette a disposizione per essere condotto. Questo è il teatro da vivo, la musica, la danza e non è negoziabile. Noi sopravviveremo a qualunque evoluzione tecnologica, il resto non so.

Non credi che al giorno d’oggi ci sia una particolare cattiveria nell’essere egoisti? Sembra che non ci sia pietà nemmeno davanti ai bambini.

C’è la paura di ciò che non so e invece di attivare la curiosità, attivo la barriera perché viene a invadere il mio territorio, la mia cultura, le nostre origini ma di quali origini stiamo parlando in Italia, noi che siamo stati inseminati da tutto il mondo. Le nostre facce lo raccontano, i colori della nostra gente: donne del sud coi capelli biondi e gli occhi azzurri, uomini scuri, con la faccia araba o normanna, quali sono le nostre origini che vorremmo difendere, la nostra razza? In Italia non c’è, forse in qualche altra parte d’Europa sono stati un poco più conservativi ma noi siamo stati attraversati da chiunque e allora la risposta è no, non c’è una cattiveria maggiore oggi che in passato. Se guardi la campagna feroce che il New York Times conduce contro gli italiani, quasi quotidiana, in prima pagina, dal 1910 al 1924 quando aprono Ellis Island e si chiudono i portoni dell’America. Vignette devastanti con lo zio Sam spaventato da una nave dalla quale scendevano gli italiani rappresentati come topi con una bandana con scritto “assassini”, “coltello”, “mafia”. Su quelle navi c’erano bambini, il dramma vero è che se oggi ci fosse una cattiveria maggiore ti potresti augurare che ci sia un’evoluzione, invece l’uomo è l’unica specie che non impara nulla dal suo passato: siamo un popolo di migranti e oggi facciamo le stesse cose che sono state fatte a noi quando migravano. Un poco come fa il governo israeliano oggi che si comporta con la Palestina pressappoco come i nazisti 70anni fa si sono comportati con loro. Non impariamo nulla dal passato: sembra quasi che ci sia un gusto nell’aver trovato un sud più a sud di noi sul quale scaricare la frustrazione di essere stati per secoli un popolo di migranti andato a trovare altrove una vita che a casa propria non c’era.

Mettere insieme tempi, luoghi, artisti e storie che tipo di miscela produce?

Ancora stiamo lavorando al chiuso. Fra due giorni ci trasferiamo sui luoghi e io ho l’impressione che lì deflagrerà tutto perché sono luoghi di realtà, non è più una finzione teatrale. Rilevo un amalgama meraviglioso tra gli artisti coinvolti, eppure sono tanti, che tra di loro hanno un linguaggio comune che probabilmente è stato il frutto di questi ultimi dodici anni di pensiero culturale in Puglia, prima inesistente. Mi sto trovando bene a mettere insieme le cose perché parlano un codice che già conoscono e di cui io non ero parte perché non sono mai riuscito a fare una produzione a casa mia. E’ la prima volta che lo faccio e mi sta colpendo molto la sintonia che deriva dal fatto che tutti hanno lavorato con tutti, questo mi rivela quante cose si sono fatte qui negli anni: ho un livello artistico molto alto e sto fremendo perché voglio vederlo nei luoghi dove le cose che raccontiamo sono accadute. Andare al Cpt, con tutto quello che quel luogo si porta dietro, fare uno sbarco, coi gommoni, gli artisti e poi far deflagrare tutto grazie anche alla presenza di persone che vivono in Italia da 15 anni e che oggi fanno parte di quel gruppo di artisti, ma che sono stati chiusi lì dentro. Ci sono persone che ci sono state davvero con don Cesare Lodeserto e allora questo mix di realtà e suprema finzione che è il teatro, l’arte dal vivo mi sta incuriosendo molto, vorrei andarci oggi e invece mi tocca aspettare ancora due giorni. 

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