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L'opposizione non firma e in aula il sindaco punta sul via libera al bilancio

Primo consiglio comunale con la maggioranza di centrodestra, ma non c'è accordo nella coalizione sulle dimissioni immediate. Salvemini attende il documento economico per capire se ci sono margini

LECCE – Con stili diversi e vecchi e nuovi trucchi dell’ars retorica, la politica cittadina entra in una fase di navigazione a vista, determinata dal risultato elettorale registrato del giugno scorso: da una parte una spinta al ballottaggio verso il cambiamento rispetto al ventennio precedente, dall'altra una indicazione per la continuità, sancita dalle preferenze per il consiglio comunale al primo turno. 

L’attraversamento della palude delle incertezze avviene a otto mesi esatti dall’insediamento della giunta, perché intanto la giustizia amministrativa si è incaricata di dirimere la controversia sull’attribuzione del premio di maggioranza che l’Ufficio Elettorale aveva assegnato alla coalizione del sindaco. Un passaggio sul quale va ribadito un concetto: una situazione identica si è registrata ad Avezzano, in provincia dell’Aquila, ma a beneficiare del premio in quel caso è stata una giunta di centrodestra. Basta questa precisazione, anche per rispetto all’organo elettorale, per rimuovere le accuse di partigianeria politica nei confronti del giudice Alcide Maritati, figlio dell’ex senatore Alberto, nome noto della sinistra: si è trattato di una interpretazione della legge elettorale che i giudici amministrativi hanno considerato errata.

Ora si devono fare i conti con le conseguenze e l’orizzonte verso il quale volgere lo sguardo non è affatto chiaro. Al termine del consiglio comunale che ha sancito la presa d’atto della nuova composizione determinata dalla sentenza del Consiglio di Stato, infatti, le certezze sono due: la prima è che al centrodestra manca la compattezza per raccogliere le 17 firme necessarie allo scioglimento; la seconda è che il sindaco non si accontenterà di un voto risicato per l’approvazione del bilancio comunale, per la quale, complice magari qualche assenza “diplomatica” potrebbero bastargli i suoi 14 voti da oggi di minoranza.

Sarà quello, in altre parole, il vero banco di prova per la possibilità di un governo cittadino con una prospettiva a medio termine; non ci fossero convergenze sulla base di un patto politico da sancire in aula “con chi ci sta”, Salvemini si dimetterà, aprendo la strada a un periodo di commissariamento fino alla primavera inoltrata del 2019.

Tenendo presente queste due costanti, si possono valutare le variabili. Quella più tirata in ballo negli ultimi giorni di discussione vorrebbe che in soccorso del centrodestra, diviso sul da farsi, arrivasse dagli avversari il numero di firme necessario per raggiungere la soglia delle 17, senza la quale non ci sarà scioglimento in tempo utile: per tornare alle urne entro l’estate il presidente della Repubblica deve firmare il decreto entro sabato 24 febbraio.

C’è chi sostiene che l’amministrazione avrebbe tutto da guadagnarne: il voto ravvicinato impedirebbe al centrodestra di ricucire gli strappi e di sanare le ferite all’interno di una coalizione dove tanti sono i candidati sindaco e troppe le pretese di egemonia. “Salvemini vincerebbe con una maggioranza chiara” si sente dire da più parti. Forse. Il primo cittadino ha però scelto la strada che la sentenza stessa, ristabilendo il perimetro della legge elettorale, sembra indicare: verificare in aula la possibilità che governabilità e rappresentatività possano coesistere, vedere cioè se la volontà della città per come espressa nel primo e secondo turno possa trovare pratica declinazione. Si tratta di una eventualità che è nel testo stesso della legge elettorale, altrimenti non esisterebbe nemmeno la cosiddetta clausola dell’ anatra zoppa. Insomma, è come se il sindaco avesse imboccato la strada politicamente più tortuosa e piena di insidie per lui, perché anche una nuova maggioranza nascerebbe, dall’approvazione del bilancio in poi, su basi molto incerte .

Le prossime settimane si incaricheranno di dire quanto sia azzardata questa scelta così come di chiarire quali perplessità, quali riserve abbiano impedito alla nuova maggioranza di sedersi attorno a un tavolo, appena terminato il consiglio, e raccogliere le firme di tutti i rappresentanti in aula, quelli già posizionati da giugno e quelli che ci sono arrivati soltanto oggi. È lecito ritenere che il centrodestra, al di là delle dichiarazioni di intenti e del fuoco di sbarramento riversato nella discussione odierna a beneficio dell'opinione pubblica, sia consapevole di non aver risolto nemmeno uno dei problemi interni che lo hanno dilaniato - la cui sintesi principale è nei quasi nove punti di differenza tra i voti di lista e quelli al candidato Giliberti - e che dunque sia necessario attendere che le elezioni del 4 marzo facciano un poco di chiarezza tra le varie anime della coalizione. Nient'altro che una legittima strategia politica per riorganizzare le fila e scagliare l'affondo al momento giusto, con un voto politico in aula su qualche provvedimento.

Prendere tempo, insomma, è la soluzione temporanea, ma qualsiasi sfiducia o dimissione intervenga dopo questo sabato, l'esito inevitabile sarà l'arrivo di un commissario per l'ordinaria amministrazione. 

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