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Il rudere del "Salapia", simbolo delle marine abbandonate al loro destino

Sporcizia e degrado, un vero e proprio pugno nell'occhio della povera San Cataldo, quando ormai una nuova estate bussa alle porte. Lo Sportello dei diritti insorge e Rotundo del Pd chiede lumi al sindaco. Breve storia di un rapido declino dello stabilimento nato fra tanti buoni propositi

LECCE – Un corridoio di sabbia che divide il “Lido York” dal “Salapia” è ancora percorso da un pontile di legno chiuso a un’estremità. Sopra, campeggiano due paletti a mo’ di croce. Un tempo sostenevano un cartello.

Ora, quella croce sembra il simbolo involontario della morte di uno stabilimento nato fra tante promesse, champagne e taglio del nastro del sindaco Paolo Perrone. Correva il maggio del 2010. Appena cinque anni addietro, sorrisi per i fotografi e novità da copertina. Il “Salapia” doveva essere il lido dei portatori di handicap, ma anche per i meno abbienti, con tariffe particolari. Ci furono anche alcune proteste perché, si disse, si rubava un altro lembo di spiaggia libera, l’ennesimo. Ma i più nobili scopi misero a tacere tutto.

Maggio 2015, primo giorno di caldo, l’estate inizia a bussa alle porte con una certa insistenza e sul waterfront di San Cataldo (lungomare, per chi non è avvezzo a certa deriva esterofila), esattamente cinque anni dopo, se quel pontile è il simbolo della morte del “Salapia”, l’intero lido si erge a sua volta (e suo malgrado), a emblema delle marine leccesi abbandonate al loro destino. Un imbarazzante rudere, un ricettacolo di rifiuti, un ingombro di legno destinato a essere mangiato dal vento e dalle mareggiate, a marcire inesorabile.  

Il declino è stato tanto rapido quanto l’ascesa. Nel giro di tre anni tutto era già finito. Nell’ottobre del 2013 arrivarono gli uomini della guardia costiera di Otranto e apposero i sigilli: occupazione abusiva di spazio demaniale e abusivismo edilizio, si disse, per quel lido affidato in gestione a una cooperativa di dipendenti comunali.

L’indagine della Procura farà il suo corso, sebbene sia arrivato anche il dissequestro. Nel frattempo s’è aperto però – parallelo - anche un altro iter, quello amministrativo. La Regione ha ritirato la concessione, il Comune ha opposto resistenza, ma prima il Tar, poi il Consiglio di Stato hanno risposto picche. A Palazzo Spada, proprio di recente, i giudici, con l’ordinanza 353/2015, hanno respinto l’istanza cautelare, rigettando la richiesta del Comune di Lecce di sospensione della sentenza della sezione locale del Tribunale amministrativo regionale.

Oggi è dai banchi dell’opposizione Antonio Rotundo del Pd a chiedere al primo cittadino cosa ne voglia fare l’amministrazione comunale di quella struttura che dal 2013 a oggi “è diventata una vera e propria discarica a cielo aperto”. “Lo spettacolo che si presenta agli occhi dei cittadini, alla vigilia della imminente stagione estiva – rimarca -,  è un tratto di spiaggia situata nel cuore della marina leccese in stato di degrado  e di totale incuria, una cartolina di San Cataldo abbandonata a se stessa che non vorremmo più vedere”.

Al sindaco Perrone, Rotundo chiede “quali iniziative intenda adottare l’amministrazione comunale per garantire il rispetto delle norme igienico-sanitarie e di sicurezza, nonché per assicurare condizioni accettabili di decoro e di salvaguardia ambientale” e “se non si ritenga di dover immediatamente  rimuovere la struttura, riconsegnando la spiaggia alla libera fruizione della cittadinanza, anche in considerazione del fatto che la concessione demaniale revocata scade comunque il 31 dicembre 2015”.

Nei giorni scorsi era stato lo Sportello dei diritti, associazione fondata da Giovanni D’Agata, a mettere a nudo ancora una volta il problema, con un eloquente corredo fotografico per evidenziare il “completo stato d'abbandono, tra rifiuti di ogni natura”. E ricordando che un tempo quel lembo di spiaggia accanto al Molo Adriano costruito all’epoca dell’imperatore di cui porta il nome, era un ritrovo abituale ormai strappato ai leccesi. Un pezzo di storia locale svanito nel tempo. Nella speranza, verrebbe da aggiungere a noi, che fra qualche secolo il “Salapia” non si trasformi in un’altra vestigia proprio come il porto romano.

“Al di là del sequestro e della relativa attività d'indagine però – aveva detto D’Agata -, rimane da sempre il dubbio circa il fatto che, comunque, il Comune, realizzando quelle opere, abbia privato i leccesi di uno spazio pubblico per i propri momenti di relax da godere in libertà. Ecco perchè ci auguriamo che già prima dell'estate si possa pensare di demolire quelle opere, e rendere nuovamente fruibile quella piccola porzione di territorio leccese”.

Se ne gioverebbe anche la vista, aggiungiamo noi in conclusione. Si riaprirebbe un orizzonte più ampio, donando grazia a una marina che brutta non è, affatto, ma che di brutture n’è purtroppo piena. Fin sopra ai granelli.   

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