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Giovedì, 25 Aprile 2024
Politica

L'anatra zoppa fra le macerie morali dei palazzi: quanto pesa la rinascita

Politica, sanità, persino giustizia: nessuno ha mantenuto la sua verginità in un 2018 ricco di infauste novità. Lecce e il Salento sono da rifondare. Mettendo gli uomini davanti alle ideologie

Un’anatra zoppa si aggira fra le macerie morali dei palazzi di una città che solo in superficie ammalia con luci sfavillanti del Natale e la raffinatezza del barocco, frutto di sapienti mani antiche che hanno scolpito capolavori immortali nella pietra burrosa. Goffa e impacciata nell’incedere, prova a mantenere la schiena dritta, ma soffre di una malattia congenita che non le lascia molte speranze. Lei, però, tira dritto con coraggio fin dove può. Perché sa che, da qualche parte, bisogna pur iniziare, se si vuole rinascere. 

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Anno 2018, la ricetta finale.

Prendete quell’inclinazione, diffusa, alla tristezza, di una fetta di popolo disorientato che digrada nella rabbia e sfocia nel delirio di sconcezze vomitate sui social (spadroneggia la xenofobia, di questi tempi). Aggiungete l’animo corrotto di tanti, che si riverbera nella tendenza alla mafiosità. Mafiosità, attenzione, non mafia. Non l’aderenza ai rituali delle cosche tradizionali, ma l’annientamento di ogni barlume etico nell’agire quotidiano.

Mescolate con l’atteggiamento sprezzante rispetto alle leggi e, prima ancora, al comune senso civico che hanno in troppi, da chi abbandona spazzatura in strada a chi occupa posizioni di rilievo in società e sviluppa una tendenza irrefrenabile all’ingordigia. Mettete a cuocere per 365 giorni, poi estraete dal forno: sentite l’aroma? L’odore che colpisce le narici è intenso, inconfondibile. E’ quello, pungente, sgradevole, di un territorio che ha perso la bussola. C’è una parola precisa per definirlo, ma sorvoliamo.

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L’insula felix è andata a quel paese. Lecce e il Salento sono da rifondare. C’è poco da girare attorno alle locuzioni. E’ così. Non da oggi, certo. Ma il 2018 sarà ricordato come l’anno dello disfacimento. Lo si avverte a pelle, sentendo parlare in giro. E guardando alle cronache recenti.

Il momento della scossa tellurica definitiva arriva giovedì 6 dicembre, a mezzo posta elettronica. Quando dici che fino all’ultimo giorno dell’anno devi aspettarti sempre qualcosa. Ore 9,59. Indimenticabile. Scarichiamo la mail in redazione, in una mattinata fino a quel momento avara di notizie e idee, e leggiamo: “Procura di Potenza”. Scorriamo il comunicato, scorgiamo le pesanti accuse, e già dopo le prime righe, le reazioni ricordano i personaggi dei cartoni animati: più nomi si leggono - un sostituto procuratore, medici e dirigenti dell’Asl, avvocati -, più le mandibole si allungano fin sotto la scrivania.

Senza ipocrisia, la prima emozione che colpisce d’istinto i giornalisti è una e solo una, davanti alla notizia bomba: euforia. La sensazione di essere eletti, fra i primi ad avere accesso a una materia esplosiva. Raccolgo la mia, di mandibola, da terra, e, dopo un attimo di sbandamento da pugile rintronato, euforico abbaio ordini in redazione con il tono alterato di un dittatore scatenato, prossimo a invadere qualche nazione, su come e cosa ribattere.

Poi scendo verso il bar per affogare nel caffè di Pino. Incredulo per quanto letto e temendo l’intrusione di hacker, inizio a tempestare di telefonate fonti personali, la collega appostata in tribunale, e persino concorrenti di altri giornali (“Ma è vero? Tu che sai?”). Infine, mi faccio capace: non c’è trucco, non c’è inganno. E divento megafono umano di quanto appreso, davanti al bancone. Vedo così, tutto attorno a me, altre mandibole cadere verso il basso. Più tardi, immagino decine, centinaia, migliaia di mandibole cascare per strada, in auto, sui marciapiedi, sui pavimenti degli uffici, davanti a pc e smartphone. L’articolo è online.

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L’euforia, però, è solo un impulso primordiale. Nei giorni seguenti, subentra altro. Una sensazione fastidiosa, un’inquietudine che non riesco a decodificare per settimane, un veleno che scorre sottotraccia, nelle vene, che mi appesta. E solo mentre mi accingo a scrivere queste righe per fine anno, comprendo: è risentimento.

Sì. Sono risentito. Verso la mia città, verso la mia terra. Sono risentito. Perché questa non è più la mia Lecce. Questo, non è più il mio Salento, quello magico che raccontavo ai miei nuovi amici, da ragazzo, nel quinquennio di esilio lavorativo a Milano. Immagini confuse, così, si affastellano alla mente, tutte insieme: un giudice del tribunale civile arrestato (l’abbiamo già scordato?), l’acceleratore premuto all’improvviso su altre inchieste. L’assenteismo negli uffici comunali, soprattutto la questione case popolari, che travolge tutto e tutti come un fiume in piena.

La forza sovrumana di un escavatore che smuove terra su terra, quell'inchiesta sugli alloggi, arriva a, relativo, breve spazio, dopo la vicenda dello sportello antiracket, a smorzare un sistema che, se reggeranno tutte le accuse, appare di dimensioni spropositate, fra protagonisti, comprimari, connivenze. Colpi di scure in un mondo in cui, per troppo tempo – lasciatemelo dire -, si è guardato alla Scu come se fosse l’unico cancro.

E scusatemi se sto omettendo molto, molto altro. Già sono prolisso. Certo, non dimentichiamo le interdittive antimafia in mezza provincia. Ma la verità è che sotto il tappeto cova una ben più vasta dispersione di valori, mafia o meno, che ha rischiato di intaccare, profondamente, ogni cellula della società. La mafiosità, appunto. Un atteggiamento di base, un motus animi, che è da sconfiggere prima di ogni cosa.

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Si torna così alla metafora dell’anatra zoppa. L’immagine definisce, in modo specifico, l’attuale situazione del Consiglio comunale leccese, quella di una maggioranza legata con lo spago. Per estensione, però, si può applicare alla situazione generale del Salento, a tutti i palazzi dove cova un briciolo di potere. Nessuno ha mantenuto la sua verginità. I luoghi della politica, della sanità, della stessa giustizia ora costretta a un doloroso atto di introspezione. A modo loro, tutte anatre zoppe. E onore, allora, a chi sta facendo un repulisti, a chi sta rimettendo in moto la macchina, ovunque.

Restando nel ristretto campo politico, è chiaro che non si può rimanere ostaggi in eterno di una situazione di equilibrio precario. Non si sa quale sarà il destino di Lecce, da qui a stretto giro, ma una cosa va detta: l’anatra zoppa è un’esperienza che vale come punto di partenza verso un futuro, si spera, migliore. Lecce è una città che ha una stringente necessità di essere governata, e bene. E qualunque maggioranza seguirà, un giorno, dovrà fare i conti con il terremoto lasciato alle spalle e, quindi, con la necessità di scegliere bene i suoi uomini, metterli davanti a tutto, anche davanti alle ideologie. Che un territorio non si governa con le ideologie, e men che meno con le promesse, ma con la saggezza e l’onestà.  

E allora, è il momento di una profonda riflessione e di rimboccarsi le maniche. Lecce ha uno stemma vero, che non è certo un papero claudicante. Lecce, deve tornare a essere fiera come la lupa, vigorosa come il leccio.

(Nella foto, dettaglio di Santa Croce).

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