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Terzapagina. Il bis di Napolitano, la fotografia di un Paese in Restaurazione

La conferma del Capo di Stato uscente riconsegna la solita politica, con la riproposizione dell'equivoco che i protagonisti della decadenza del Paese possano trovare la soluzione: ancora una volta non c'è spazio per il cambiamento

La sensazione è quella di un Paese fermo, sotto scacco, incapace di un reale cambiamento. Resta questo dopo tre giorni di votazioni alla Camera sfociate nel rinnovo storico del mandato di Giorgio Napolitano come Capo dello Stato. Tra parlamentari abbagliati dalla "supercazzola" del conte Mascetti, magliette "antiprodiane" in bella mostra e un generico fastidioso stile da scolaretti a cento giorni dalla maturità, la fotografia di questi giorni non riconsegna la politica alla centralità desiderata.

Anzi, a due mesi dalle elezioni, si riconferma il Presidente della Repubblica uscente (87 anni sulla carta d'identità), mentre è ancora in carica quel governo tecnico che doveva essere sostituito dalle urne. Le Camere sono in stallo e la prospettiva che si profila è quella di un esecutivo di "larghe intese" fotocopia dell'esperienza degli ultimi sedici mesi. Una Restaurazione in "grande stile", che risponde alla una crisi incalzante riproponendo lo status quo e mettendo in stand-by la speranza per il futuro.

Le vicende sono state raccontate ampiamente in questi giorni, coi tratti peggiori delle logiche stantie del palazzo e dei tatticismi di una partitocrazia che si rigenera sulle proprie macerie. C'è un delirio di onnipotenza comatoso nel ritenere che chi ha gestito il potere in questi anni, causando o lasciando irrisolti i problemi del sistema, oggi diventi di colpo in grado di invertire la tendenza. È un equivoco su cui si insiste da tempo e che lascia inascoltata la domanda di cambiamento profondo che esiste nelle viscere del Paese reale.

Su Napolitano il giudizio personale è libero. Ma è innegabile lo squilibrio di metodo, con cui parlamentari nominati, che hanno umiliato ogni ansia di partecipazione democratica, hanno tessuto un accordo sulla base di strategie ormai avulse da ogni contesto umano e sociale. Ma c'è pure un problema di prospettiva: se, da un lato, non si può ignorare che il Capo dello Stato abbia tentato in ogni modo di sopperire alle gravi mancanze della politica, d'altra parte, è altrettanto indubbio che molte delle sue mosse si siano dimostrate sbagliate.

La domanda essenziale è, dunque, al di là della "stabilità partitica" (più che istituzionale), cosa possa offrire di alternativo un presidente che sembra già aver giocato tutte le carte a propria disposizione? A questo dovrebbero rispondere quanti oggi salutano con entusiasmo questo bis. Le istituzioni necessitano di figure che interpretino idee e modelli diversi da quelli finora proposti. Non è volontà di rinnovamento solo anagrafico (che pure serve, ma non esaurisce il "cambiamento"), ma esigenza di discontinuità, di linfa vitale che agisca sulla decomposizione di un sistema putrido, marcio, svilito. E che si può rialzare solo scoprendo altre risorse.

Non ha colto questa urgenza il Pd, travolto dalle sue fusioni mai riuscite, e dalla preoccupazione di una conservazione anacronistica, che non riguarda solo la sua dirigenza, oggi (come nell'ultimo ventennio) giustamente sotto processo, ma forse una buona fetta dello stesso elettorato, che ha permesso al proprio "apparato" di nutrirsi e riprodursi sulle vicissitudini passate, che pure richiedevano di voltare drasticamente pagina.

Non la coglie nemmeno il Pdl, perennemente ostaggio dell'equivoco che il cambiamento sia sempre qualcosa che riguardi gli altri, impermeabile ad ogni processo democratico dentro una relazione di dipendenza dai destini del suo padre-padrone, che più che un leader sembra un totem da venerare a prescindere. Non la colgono i "terzopolisti", che annaspano nell'ambiguità dei termini di bandiera ("moderati", "montiani", "responsabili", "serietà"), ricercando verginità perdute in alchimie di "centri" e "centrini" che si reggono sulle crepe delle ali.

In mezzo a questi mondi, c'è la palude di una nazione alla deriva, svenduta ai giochini di Palazzo e in preda all'inconsistenza di una visione d'oltre. Dove rinunciare al finanziamento pubblico dei partiti è una montagna impossibile da scalare, dove la giustizia elefantiaca va bene purché non tocchi gli interessi di pochi, dove la burocrazia sia nemica del cittadino e l'economia di austerità ai danni dei soliti noti.

Non è un Paese per giovani quello che non sa trovare un'altra figura in grado di ricoprire la prima carica di uno Stato. Non è un Paese per innovatori quello che non sa ascoltare la voce di un popolo che non chiede di arrangiarsi e di fare ancora una volta "di necessità virtù". Ma che pretende finalmente una svolta. Furiosa, contagiosa, dirompente.

È un Paese senza futuro quello che si affida a dieci "saggi", pescati tra cariatidi del potere e politici di vecchio corso e dell'usato insicuro. Invece, servirebbero "folli". Servirebbero coraggiosi. Servirebbero profeti. Testardi, sognatori e concreti.

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