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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Politica

Via Brenta, Capone: "Adesso vi racconto la mia verità"

L'ex assessore in una lettera pone in evidenza tutto ciò che sarebbe accaduto in quei giorni. Chiamando in causa il sindaco di allora, Adriana Poli Bortone e l'iter per arrivare all'adozione dell'atto

LECCE - Una lettera che cela considerazioni forse meditate da tempo e che ora vengono a galla, nei giorni che scorrono tra veleni, difese, attacchi e contrattacchi, in un polverone che investe Palazzo Carafa. "La mia verità su via Brenta", s'intitola così, la lettera. Porta la firma dell'ex assessore Antonio Capone, oggi alla guida dell'associazione culturale "Nova Apulia". E' stata inviata via e-mail a diverse redazioni. Ricostruisce un possibile scenario. Quello che sarebbe avvenuto. E come sarebbe quindi nato un caso spinoso. Una storia lunga e contorta, quella degli immobili di via Brenta. Finita prima sotto i riflettori della cronaca, lo scorso anno, con l'apertura di un'inchiesta giudiziaria per presunte maxi-tangenti sui palazzi dove ha sede il Tribunale civile, e tornata negli ultimi giorni alla ribalta, questa volta sul fronte politico, quando, in una conferenza stampa, il sindaco Paolo Perrone ha annunciato il dietrofront: contratto per l'impegno d'acquisto sospeso.

"In riferimento al cosiddetto Affaire di Via Brenta - esordisce Capone, nella sua missiva che riportiamo integralmente - , avverto la necessità di raccontare la mia verità, la mia scomoda verità, di assessore della Giunta comunale dell'epoca che fu presente ai fatti che adesso si raccontano, talvolta, con approssimazione. A dire il vero, su quelle questioni che coinvolgono amministratori di ieri, di oggi e di domani, mi ero imposto un silenzio tombale, affinché le mie parole non apparissero come una rancorosa vendetta nei confronti di chi mi aveva dismesso dal mio incarico assessorile, inviandomi appena tre righe. Ma poiché adesso assisto alle dichiarazioni frettolose dell'attuale sindaco e dell'ex sindaco, di giornali e televisioni, sento il dovere morale di riportare indietro le lancette dell'orologio per raccontare i fatti così come realmente andarono. Posso fare ciò non essendo un impiegato in pianta stabile della politica - aggiunge Capone - e con la coscienza di chi non ha mai bruciato i suoi ideali sull'altare del presenzialismo politico a tutti i costi".

Poi, la narrazione cronologica. "Uno storico pomeriggio del 2004 - scrive Capone -, l'allora sindaco della Città di Lecce, Adriana Poli Bortone, si presentò in Giunta e, senza leggere l'atto deliberativo della presa in fitto, a carico del Comune, dei locali di via Brenta, dichiarò che pretendeva la firma di sottoscrizione a tale delibera da parte di tutti gli assessori, altrimenti avrebbe tratto le dovute conseguenze. Lettaci tale delibera e venuti a conoscenza del contenuto, molti tra noi assessori lo ritennero privo di quei fondamentali elementi di buona amministrazione (assenza di una correlata ricerca di mercato, nessuna quantificazione dei fitti, etc.) necessari alla nostra adesione. Tale atto deliberativo - prosegue - non era composto da più di tre righe e demandava, per tutti i consequenziali adempimenti, agli uffici competenti. Terminata la lettura, ci fu una generale perplessità da parte di tutti gli assessori e soltanto 7 (sette su 13) la votarono. Il sindaco, allora, estremamente insoddisfatto, ritirò l'atto e lo portò via con sé. I non firmatari, guardandosi negli occhi - sottolinea l'ex assessore -, al termine di quella Giunta, erano non soltanto in pace con la loro coscienza ma anche politicamente soddisfatti, poiché avevano impedito che tale delibera fosse approvata".

Tuttavia, "dopo due mesi, la delibera ricomparve in Giunta - ricorda Capone -, senza modifiche sostanziali rispetto alla versione originaria, versione che, come appena detto, era stata approvata soltanto da sette assessori su tredici, senza quella unanimità richiesta dal primo cittadino. Stavolta, però, quell'atto, pur senza modifiche sostanziali, fu votato da tutti gli assessori. Tutti tranne uno. Tutti tranne il sottoscritto. Tutti tranne Antonio Capone. Vidi il sindaco estremamente infastidito, poiché si augurava l'unanimità che grazie a me non c'era stata. La delibera - precisa - fu nuovamente ritirata".

E, ovviamente, la storia non finisce qui. "Dopo un mese - prosegue Capone -, quello stesso atto ritornò in Giunta accompagnato dall'invito, invito che mi fu rivolto in presenza di tutti gli altri componenti della Giunta, di firmarlo. Ancora una volta rifiutai di firmare, adducendo apertis verbis le stesse motivazioni del mio precedente diniego: quella delibera era, almeno dal mio modestissimo punto di vista, incompleta e non poteva impegnare l'amministrazione in un momento così delicato per le casse comunali. Non solo: a mio avviso non si poteva dare una delega in bianco agli uffici e ai dirigenti competenti che, invece, su questioni così importanti, dovevano avvertire la presenza della strada tracciata e ben delineata dai paletti della politica. L'atto - specifica l'ex amministratore di Palazzo Carafa - fu adottato senza la mia firma".

Si arriva così ad un momento cruciale della vita politica cittadina, sui quali nel passato si sono versati fiumi d'inchiostro sui giornali. "Solo per una strana coincidenza, ma ribadisco solo e soltanto per una strana e fortuita coincidenza - dice Capone -, due mesi dopo, sempre con tre righe, fui licenziato dal sindaco senza alcuna motivazione politica. Fui cacciato via dalla Giunta, dove tutti gli altri restarono, convinto che la rappresentanza politica non possa e non debba essere legata a incarichi e poltrone, ma solo a valori, ideali e profondi convincimenti. Quando ci sono".

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