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Il caos: una tifoseria confusa, una squadra allo sbando, una società silenziosa

Quarta avvilente sconfitta, ma il tecnico resta al suo posto nel silenzio più totale del club. Ed è forse l'aspetto che pià preoccupa: nessuna comunicazione, mentre intorno ci s'interroga sua quali siano presente e futuro del Lecce

LECCE - “Prima regola del Fight Club: non parlate mai del Fight Club. Seconda regola del Fight Club: non dovete parlare mai del Fight Club”. Il perché è semplice: Tyler Durden non esiste. E’ solo un parto della mente del personaggio interpretato da Edward Norton. Però l’effetto collaterale è concreto e  devastante. Finale del film: i grattacieli imbottiti di esplosivo vengono giù come pupazzi di neve squagliati al sole. Si compie così il destino che il protagonista desidera e nel contempo cerca di fermare, in una paradossale lotta fra due identità.

La domanda è d’obbligo. E’ questo il destino del Lecce? Un’implosione reale generata da un club che oggi sembra un fantasma con doppia personalità? Da un lato, una campagna con qualche connotato appariscente (vedi operazione Miccoli-Moriero, molto simile all’aver tirato in ballo lo scorso anno il claudicante Chevanton); dall’altro, un evidente imbarazzo nel mettere in piedi qualcosa che somigli veramente ad una squadra. Il tutto, sotto una cortina di silenzio. Ed è proprio dietro al silenzio che spesso si consumano i peggiori drammi.

Per capire il disarmante senso di frustrazione, bisognerebbe trascorrere una domenica in mezzo ai tifosi. Le (fraintese?) parole di Moriero nel prepartita, bombe a mano gettate fra le tribune. Nella confusione generale, dita puntate a vicenda (“tu gufi”, “no, gufi tu”), sporadici cori che si alzano contro i Tesoro e altrettante barriere difensive, gettate lì con freddure: “E allora cattalu tie lu Lecce”. E poi sonori fischi, e fischi contro chi fischia, salvo poi associarsi e fischiare tutti insieme i giocatori. I quali, nei minuti che corrono inesorabili, vanno dritti incontro all’ennesimo fiasco.

E che fiasco. Una prestazione sotto il limite della decenza. Inaccettabile. Improponibile. Inenarrabile. E intorno, tensione, offese, bestemmie e steward che osservano tutto con occhio vigile. Dietro s’intravede la scintilla dell’inquietudine: nei minuti finali manca poco perché s’inneschi una rissa.

Qualcuno beve birra per i fatti suoi, assorto in un eloquente silenzio, qualcun altro preferisce levare le tende e uscire anzitempo, piuttosto che sorbire lo schiaffo morale dei calciatori avversari festanti sotto il settore ospiti. E va bene, può succedere, ma non “ogni maledetta domenica”, per dirla con il motto che un gruppo di “sudisti” emigrati alla Est vorrebbe imprimere sulle prossime magliette.

Per farla breve, la rabbia che si consuma sugli spalti è la vera cronaca della gara.

E così, nel marasma totale si finisce per non capire bene a chi affibbiare colpe specifiche. Ma il caos, in generale, non è affatto un buon segno: viene a mancare il senso del rispetto, ed è questa l’unica cosa che si percepisce chiara. La piazza non sarà oggi un granché, ma non merita comunque questo trattamento, che porta alla diaspora. E’ troppo. Davvero. La città non ha ancora assorbito il livido del calcione nelle terga, dopo la retrocessione con onta targata fase calante dell’epopea Semeraro, e già si ritrova invischiata in un nuovo incubo. Quante offese dovrà ancora subire una maglia che un tempo brillava orgogliosa sotto il sole di campi dai nomi altisonanti?

L’assenza attuale di un’idea di società è sottintesa. Si capisce da certe dichiarazioni del mister, senza il filtro del buon senso, rilasciate prima della gara con il Catanzaro. Diventa palese dopo la quarta, avvilente sconfitta. Nessun cenno di vita, mentre il tecnico è sempre lì, a scudo di calciatori spaesati, che sembrano vedere un pallone per la prima volta nella loro esistenza.

Che li abbia voluti o meno, Moriero ha la colpa evidente di non saperli motivare. Può essere che al posto dei piedi abbiano pezzi di legno, ma il suo maestro Mazzone ne avrebbe già tirato fuori qualcosa. Nel 1990 prese da parte Ingrosso, un ragazzone che poi avrebbe fatto una carriera mediocre, e gli diede tanta di quella carica agonistica da riuscire a fargli ipnotizzare nientemeno che Klinsmann. Con l’Inter finì 0 a 0 e il bomber tedesco, all’epoca all’apice della floridezza, non toccò un solo pallone. E va bene. Qualcuno obietterà: era la serie A, le motivazioni vengono da sole. Sarà, ma solo indossare questa maglia, si potrebbe replicare, è di per sé uno sprone a gettare il cuore oltre l'ostacolo. Perché questa non è una maglia qualunque: ha un peso storico che va onorato.   

Ma addossare tutte le colpe a Moriero sarebbe sbagliato. Può aver avallato o meno certi acquisti, talune scelte. Il problema resta un altro: la società non sembra avvertire formicolii sulla pelle e la cosa turba. I tifosi, indipendentemente dal settore occupato, hanno un cuore pulsante e una mente pensante. E se il cuore è in eterno giallorosso, la mente visualizza al momento solo idee nere. E dunque, Tesoro, che fate? Vendete? Rilanciate? Volete salire o soltanto galleggiare? Se ci siete, battete un colpo. Ma che sia un colpo chiaro, dal suono nitido.

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