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Il commovente entusiasmo dei tifosi leccesi a Heerenveen: passione e radici

Aradeo, Leverano, ma anche sostenitori di seconda generazione: nel viaggio del Lecce in terra olandese uno spaccato di appartenenza, un sentimento più forte di tutto. E se il calcio sta cambiando, l'amore per i colori della squadra resiste

LECCE – Giornata speciale l’ha definita il presidente, Saverio Sticchi Damiani, ma l’aggettivo non è certo sufficiente a spiegare il groviglio di emozioni che ha travolto i cinque tifosi del Lecce presenti sugli spalti dell’Abe Lenstra Stadion di Heerenveen, dove la squadra giallorossa ha disputato la prima amichevole internazionale in trasferta della sua storia.

In tre si sono sistemati sulla tribuna principale: due italiani e un olandese, loro amico. Originari di Aradeo, vivono e lavorano in questo pezzo della Frisia, dove tutto sembra perfetto, ordinato, armonico. Entrati nell’impianto, si sono precipitati dietro la panchina dei giallorossi, impegnati nelle fasi di preparazione alla gara. Felici come bambini, letteralmente.

Gli altri due si sono ritrovati per caso sulla tribuna opposta: il più anziano, da 35 anni in Belgio, viene da Leverano, l’altro, un giovane, è di seconda generazione con famiglia di Muro Leccese e qualche parola in dialetto stentato, più che in italiano. Si sono seduti accanto, come padre e figlio, accomunati dalla stessa passione, attraversati dallo stesso orgoglio (nella foto, sotto).

Sullo sfondo biancoazzurro dei supporter locali, i cinque puntini giallorossi si sono distinti subito per il colore delle sciarpe e delle felpe. Quando la partita è stata definitivamente sospesa hanno atteso che la comitiva giallorossa uscisse dall’impianto: una foto dietro l’altra, una stretta di mano al presidente con tanto di ringraziamento per l’opportunità ricevuta.

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Le radici possono andare molto in profondità e non ci sono fatti della vita in grado di reciderle. Anzi, apparentemente contro logica, possono anche rinsaldarsi, alimentarsi, superare il tempo e lo spazio come la parabola impossibile di un calcio di punizione che si infila nel sette senza che il portiere possa farci nulla.

Il calcio professionistico da fatto sportivo sta diventando sempre più fenomeno di intrattenimento e, per questo, molto sensibile alle questioni commerciali: è una deriva irreversibile, me è anche un fatto di sostenibilità, perché se sei azienda sul mercato devi imparare a starci con le tue forze.

Sono tempi duri per il romanticismo, ma in fondo lo sono sempre stati, solo che ogni generazione di tifosi pensa di essere il centro, il punto zero tra un prima e un dopo. Non è così, è solo un inganno di prospettiva. Una volta c’erano i palloni di cuoio e i leggendari terreni polverosi dove i pionieri si sfidavano, mentre i tifosi si assiepavano sulle tribune in legno e ferro e coloro che non potevano permettersi l’ingresso si inventavano ogni sorta di espediente per non perdersi lo spettacolo.

Oggi ci sono i materiali sintetici, performanti, e gli stadi, - diffusamente nel resto d’Europa, assai meno in Italia – sono contenitori dove puoi spendere in cibo, bibite e gadget molto più che per il biglietto della partita. Una volta c’erano i presidenti che, con le loro forze, tiravano su un club, gli davano una organizzazione, tiravano avanti. Poi sono venuti gli sponsor, gli intrecci di interesse, fino ai fondi di investimento (o di speculazione) che fiutano nel calcio l’opportunità del business.

Sta dunque morendo lo spirito del calcio, quello “vero”? Esiste un’anima originaria oppure ce ne sono tante quante le epoche che il calcio ha attraversato correndo parallelamente ai cambiamenti della società contemporanea? Difficile dirlo con certezza, ma di sicuro esiste, immutata, l’intensità della passione che a tutto resiste e della quale questi cinque tifosi ci hanno dato una testimonianza che fa venire la pelle d’oca.

L’amore per la propria squadra, il sentimento di appartenenza che il calcio sa alimentare, sono concetti difficilmente inquadrabili in parametri. A dire il vero sono stati emotivi sconosciuti per alcuni, tanto che il tifo finisce per essere considerato una patologia: “Sei malato”, ti dicono in maniera rassegnata, allargando le braccia, scuotendo la testa.

È vero, da un certo punto di vista: in Belgio oggi c’è un salentino che si è svegliato, c’è da scommetterlo, stordito dalla felicità. Oggi non è un giorno qualunque perché ricorre l’anniversario della tragedia nella miniera di carbone di Marcinelle, nella quale morirono 136 immigrati italiani. Era il 1956 e quindici venivano dalla provincia di Lecce: non erano andati via per piacere ma, come lui molto tempo dopo, per un lavoro dignitoso, una vita migliore. La squadra salentina, quell’anno, si era classificata 14esima nel girone G della Quarta Serie, mentre oggi si appresta a lanciare una nuova sfida per riconquistare la massima serie.

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