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Elettronica, post-rock e filosofia: Ninotchka, progetto “liquido” oltre il concetto d’identità

Il 4 febbraio in uscita “In nessun posto”, il terzo singolo di Ninotchka, il progetto musicale del salentino Mimmo Pesare cantato da Emidio Clementi, voce e leader della cult band Massimo Volume

LECCE – Dopo l’ipnotizzante brano “Temporalità”, al quale è seguito “Scegli”, il 4 febbraio arriva “In nessun posto”, il terzo singolo di Ninotchka cantato da Emidio Clementi, voce e leader della cult band bolognese Massimo Volume. Non un gruppo quello dei Ninotchka, ma un progetto aperto, delocalizzato, senza confini, “liquido”.

(Questo il link di “In nessun posto": https://open.spotify.com/track/4xTLuucUKehsnikoANKCBH?fbclid=IwAR0mtg0p1VyK5EjVimuHuiWZlfdMpn0EYJo_uZ57GL2atp28KZ24UvnSrQgninotchkaspotify-2

Padre di questa sorta di creatura tentacolare, che guarda a generi che spaziano dalla canzone d’autore all’elettronica, passando dal trip-hop e post-rock, è Mimmo Pesare. Originario della provincia di Taranto è noto nel Salento non soltanto come artista, ma anche per i suoi studi accademici, quelli su Jacques Lacan in primis. Pesare è infatti docente presso l’Università del Salento, dove insegna  Psicopedagogia del linguaggio e Pedagogia sociale. Del progetto Ninotchka ne abbiamo parlato direttamente con lui, nell'intervista che segue.

Partiamo dal nome del tuo progetto musicale: Ninotchka si rifà alla protagonista socialista dell’omonimo film di Ernst Lubitsch?

“In qualche modo sì: il film di Lubitsch è uno dei motivi per cui qualche anno fa ho deciso di chiamare Ninotchka il mio progetto solista; ma Ninotchka è anche il titolo di una canzone dei Tuxedomoon, band che amo molto. Accanto a questi due motivi ufficiali, mi piaceva proprio l’idea di intitolare il mio lavoro a un certo immaginario noir, alla bellezza tagliente di Greta Garbo, protagonista del film di Lubtisch e poi, in maniera molto più banale e prosaica, il nome Ninotchka mi piaceva anche solo esteticamente…ha una felicità fonetica, secondo me.”

Più che un progetto solista, lo hai definito un “tentativo di costruire un network delocalizzato di artisti che aspira a superare il concetto di identità”. Dunque un prodotto musicale e, per restare nel glossario della filosofia contemporanea, “liquido”?

“Esattamente. Quando ho cominciato a fantasticare su una mia avventura solista, dopo oltre vent’anni di esperienza con band locali (Art Nouveau, QCK, Sellers, Zeman), l’idea era quella di provare a divertirmi sperimentando la possibilità di mettere insieme un network, un collettivo alla maniera del Wild Bunch di Bristol, quella comunità di amici da cui uscirono artisti come Portishead, Tricky, Massive Attack, U.N.C.L.E. Poi piano piano, da una dimensione esclusivamente ludica, ho pensato che forse era arrivato il momento di rimettermi in gioco con un disco e un progetto strutturato, alla mia veneranda età… Sono nato come bassista, quindi negli ultimi anni ho dovuto ri-alfabetizzarmi rispetto ai linguaggi tecnici della musica elettronica, degli strumenti e dei software per produrla, ho cominciato a comprare una “macchina” dopo l’altra e quando sono arrivato a un setup che mi convinceva ho immaginato il disco che io stesso, come consumatore, avrei voluto sentire e ho provato a comporlo. Tutto qui. Anche se oggi il progetto Ninotchka è legato fondamentalmente alla mia autorialità, quella liquidità di cui parli è rimasta in almeno un paio di cose: innanzitutto è rimasta la scelta di non uscire col mio nome e cognome perché sono ancora affascinato da un’idea musicale che prescinda dall’identità, sebbene in questo tempo “indie” tutto sembra seguire la forza centripeta del volto e dell’identità dell’artista. In secondo luogo, ma come conseguenza di questo, il fatto che alla voce ci sia sempre un altro artista in qualche modo rafforza quella filosofia: il nome e la voce sono i vettori principali attraverso i quali si esplicita l’Io del soggetto; rinunciando al nome e alla voce si dà una bella legnata a quella tentazione narcisistica di “esserci” e ci si concentra più sul messaggio, sulla musica, sul testo”.photo Ninotchka-2

Progetto solista, ma che si avvale della collaborazione di prestigiosi nomi del mondo musicale non soltanto locale (Marco Ancona, Giorgio Consoli, Gianluca De Rubertis), ma anche Emidio Clementi dei Massimo Volume. Come nasce la collaborazione con il leader della storica band bolognese nel brano “In nessun posto”, in uscita a giorni su Spotify e su tutti i digital stores?

"Tutto si gioca sulla canzone: è l’unica chiave di lettura per entrare nella filosofia del progetto. Dopo aver composto, suonato, campionato e scritto il testo, faccio ascoltare il pezzo ad artisti che immagino alla voce e loro, se ne vengono colpiti, lo cantano. Almeno finora è andata così e ne sono contento: è successo col primo singolo, “Temporalità”, cantato da Giorgio Consoli (Leitmotiv); col secondo, “Scegli”, cantato da Gianluca De Rubertis (Il Genio); e adesso con questo terzo singolo ho avuto la straordinaria gratificazione di incassare la voce di Emidio Clementi. I dischi dei Massimo Volume sono stati una specie di romanzo di formazione dei miei vent’anni: quando ascoltai Lungo i bordi nel 1995 fu uno shock e tuttora la produzione dei Massimo Volume e anche le esperienze musicali parallele di Clementi (El Muniria, Sorge) sono una specie di balsamo per il mio spirito. Poi nel tempo sono venuto in contatto con Emidio, che nel 2015 ha anche firmato la prefazione di un mio libro, scritto per il corso che tengo all’Università (Jacques Lacan spiegato dai Massimo Volume, Musicaos Editore). L’amicizia con Emidio è poi confluita anche in questa collaborazione artistica, che mi onora. Lui ha sentito il pezzo, gli è piaciuto e ha accettato di interpretarlo, semplicemente. E nessuna voce meglio della sua poteva interpretare questo pezzo, visto che il testo è anche un adattamento di alcuni passi di Diario di lavorazione di Sam Shepard, un autore che entrambi amiamo. Questo regalo di Mimì per me è stato un cameo, una specie di chiusura del cerchio, una sorta di riannodamento con la mia giovinezza: mai avrei pensato, quando ascoltavo i dischi dei Massimo Volume da ragazzo, di poter un giorno fare una canzone insieme a lui. E amo molto “In nessun posto” anche perché è un pezzo che musicalmente mi ha fatto crescere a livello compositivo e di arrangiamento musicale. Come per i primi due singoli, è prevista anche l’uscita di un videoclip ufficiale, in primavera. Naturalmente oggi i tempi in cui mi posso concedere totalmente alla musica sono un compromesso col mio lavoro e con una serie di altre cose, quindi i singoli sono usciti in maniera piuttosto dilatata in questo ultimo anno e mezzo ma finalmente posso dire che ci siamo e che dopo l’estate uscirà il tanto desiderato primo LP di Ninotchka. Ci saranno quindi altre canzoni e soprattutto altre collaborazioni alla voce, di cui però non anticipo i nomi. In tutto questo processo ho potuto avvalermi della sapienza e della professionalità di Marco Ancona, altro amico e storico rocker leccese, che ha firmato il missaggio di tutti i pezzi di Ninotchka e che li ha prodotti insieme a me, oltre ad aver suonato parte delle chitarre del disco".

Quanto e in quali brani incide la tua formazione filosofica, di ricercatore e di docente, nella musica di Ninotchka?

“Beh, scusa se mi concedo una citazione che appesantisce un po’ l’intervista ma, come diceva Jacques Lacan, noi tutti siamo il prodotto degli incontri che abbiamo fatto nella nostra vita. Siamo ‘fabbricati’ da quegli incontri. Nel mio ‘romanzo di formazione’ ci sono le persone che ho amato, la musica che ho ascoltato, i film che ho visto, i viaggi che ho fatto e i libri che ho letto: sono tutti incontri che fanno sì che oggi io sia quello che sono e che non possa esserlo in nessun altro modo che in questo. La mia formazione filosofica e il mio lavoro, anche se cerco di tenerli da parte, ritornano nelle cose che faccio al pari della musica che ho ascoltato e delle altre esperienze che ho ‘incontrato’. Non ci posso fare niente. “Temporalità”, per esempio, potrebbe essere pensata come una canzone che parla in maniera lieve della nostra esperienza di “esseri di tempo”: è una specie di rigurgito camuffato dei miei innamoramenti studenteschi per l’Esistenzialismo. “Scegli” (in cui Gianluca De Rubertis non ha solo cantato ma anche suonato il piano e il basso e ha partecipato all’arrangiamento) è una sorta di tassonomia e di sberleffo nei confronti di alcuni status symbol del nostro tempo e della loro tendenza alla massificazione. “In nessun posto”, se ci penso, potrebbe essere una sorta di “ritorno del rimosso” di un mio vecchio pallino giovanile: il tema filosofico dell’abitare e degli spazi. Insomma, niente si distrugge, tutto ritorna e si trasforma”.

Elettronica, trip-hop, post-rock, canzone d'autore: quale il genere prevalente nell’album in uscita?

“Tutti questi che hai detto, anche se spesso mescolati istintivamente. Amo il trip-hop da sempre, da quello classico dei primi anni Novanta nato a Bristol, fino a quello più contaminato dei Gus Gus, dei Laika, di Kruder & Dorfmeister, solo per citarne alcuni. Ho cercato di reinterpretarlo alla luce dei nuovi suoni, molto più minimali, della più recente organic electro: oggi mi piacciono molto le sonorità di artisti quali Bonobo, Apparat, Christian Löffler, Beacon e le ultimissime cose di Thom Yorke e Trentemøller. Ma ci sono sempre anche le chitarre, marchio di fabbrica della mia adolescenza; chitarre non protagoniste ma seminali, che umanizzano un po’ l’elettronica con sonorità appunto post-rock. E poi c’è un grande lavoro sui testi: scrivere in italiano un testo intelligente, se non hai vent’anni e non ti rivolgi al pubblico dei The Giornalisti o dei trapper, non è facile e richiede tempo e dedizione. In questo senso, al di là della musica e degli arrangiamenti, mi piace pensare ai pezzi di Ninotchka soprattutto come a un tentativo di coniugare la canzone d’autore all’elettronica”.

Come un musicista salentino può vaccinarsi contro la tentazione di cedere ai richiami della musica popolare? Sembra che la si piazzi un po’ ovunque…

“Beh, la risposta a questa domanda rischia di farmi svelare fin troppo caustico: non sono mai riuscito a farmi piacere la musica popolare, se intendi l’espressione “musica popolare” in senso regionale, tipo la pizzica qui da noi. Non mi dice niente, non mi parla. Non ci posso fare nulla. Mi sento mediterraneo ma in termini culturali e musicali la mia formazione è europea: la musica che mi parla, che mi racconta, nasce con Bowie e poi, passando dal punk e dalla new wave, arriva ai Massive Attack. Mezz’ora di ascolto di pizzica sul mio corpo equivarrebbe a un trattamento tipo “terapia Ludovico” di Arancia meccanica…”.

È in cantiere un tour? Magari in vista della prossima estate…

“Allora, le canzoni di Ninotchka naturalmente vedranno presto anche la loro cornice live, con una band costruita per portare dal vivo il disco, ma questo succederà solo dopo l’uscita dell’LP. In realtà il progetto musicale Ninotchka (in senso stretto) è affiancato da un progetto parallelo, Ninotchka Project, che in qualche modo rappresenta quel collettivo allargato e multitasking di cui ti parlavo prima. Con Ninotchka Project sono già in giro da più di un anno con uno spettacolo che vede accanto a me i miei amici Giorgio Consoli (già cantante di Ninotchka) alla voce e Giuseppe D’Oria (regista di entrambi i videoclip di Ninotchka) alle istallazioni video. Si tratta di “La follia e il suo doppio. Reading musicale per Franco Basaglia”, uno spettacolo che un paio di anni fa pensai di portare sul palco con Giorgio limitatamente a una serie di manifestazioni per il 40esimo anniversario della Legge 180. Poi però la cosa è piaciuta e dopo aver girato in lungo e in largo il Salento e la Puglia, già dallo scorso autunno ci ha visti in tour anche in Italia, con date a Modena, a Brescia, a Pisa; a febbraio ci vedrà ancora live a Roma e a Napoli e a partire da giugno anche nel nord-est, nei luoghi basagliani. “La follia e il suo doppio” ci ha permesso di incontrare realtà e persone bellissime, molto spesso all’interno dei circuiti dell’Arci e dei teatri sperimentali; dopo oltre venti date siamo sempre più convinti che si tratti di un live necessario, perché nonostante sia uno spettacolo molto forte, che parla di manicomi, di elettroshock, di segregazione, veicola un messaggio importante, soprattutto dal punto di vista politico, in questi tempi in cui sembra che i diritti umani siano diventati qualcosa da rinegoziare. Molte delle musiche di “La follia e il suo doppio” le ho composte per Ninotchka e mentre le suono dal vivo, mentre Giorgio interpreta le parole di Basaglia e Giuseppe manda immagini della brutalità dei manicomi, mi capita ancora di pensare che quando suoniamo facciamo qualcosa di più che mettere insieme note e che la musica possa ancora dire una parola di civiltà, oltre che di poesia”.

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