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Giovedì, 28 Marzo 2024
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“Grave la situazione carceraria”. Ferma denuncia degli avvocati

Animato dibattito oggi nel corso del focus dedicato ai penitenziari, nell'ambito del Congresso nazionale forense in svolgimento a Lecce. Ribadita la necessità di condizioni più umane e meno speculazioni politiche

LECCE - “Per una detenzione più umana: dalla pena alla rieducazione, dalla risocializzazione al lavoro”. Era questo il tema del focus pomeridiano nell’ambito del Congresso forense, in svolgimento in questi giorni a Lecce. A moderare il dibattito, Giovanni Negri, giornalista de Il Sole 24 Ore. Vi hanno partecipato: Emilia Rossi, componente del Collegio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Maria Brucale, avvocato del Libero Foro, Giovanna Ollà, vicepresidente della Scuola superiore dell’avvocatura, Vinicio Nardo, componente dell’Ufficio di coordinamento dell’organismo congressuale forense e Giulia Merlo, giornalista del quotidiano Domani.

Nel confronto è stato posto l’accento sulla grave realtà del sistema penitenziario italiano e sulla necessità di investire per un cambio di paradigma. Obiettivo: avere una detenzione più umana, dalla pena alla rieducazione, dalla risocializzazione al lavoro.

Contro le speculazioni della politica

Per Emilia Rossi il quadro attuale è preoccupante. “Quello della detenzione, dell'esecuzione penale, è un tema che non interessa quasi a nessuno, in particolare alla politica, salvo quando diventa occasione per raccogliere consenso elettorale e quindi è fonte di grande strumentalità politica”, ha rimarcato. “Per questo ringrazio la presidente Maria Masi e il Consiglio nazionale forense che hanno voluto questa tavola rotonda e questo momento di riflessione”. 

“Tra Cnf e Garante nazionale – ha aggiunto – c’è un dialogo stretto, iniziato già nel 2017 con il primo protocollo d’intesa, che la presidente Masi quest’anno ha nuovamente sottoscritto, potenziandolo, amplificandolo, prevedendo delle forme di partecipazione degli avvocati al lavoro del garante nazionale, alla formazione e allo sviluppo di una cultura, giuridica e sociale sull'esecuzione penale in cui gli avvocati siano protagonisti, con tavoli di studio, di formazione, centri di raccolta delle segnalazioni che provengono dal mondo dell'esecuzione penale e prevedendo altresì il coinvolgimento degli ordini forensi nel momento della individuazione dei garanti comunali e provinciali. Si tratta di un potenziamento notevole di un’intesa all’interno della quale si iscrive questo utile momento di confronto”, ha concluso, nel suo intervento. 

Giovanna Ollà, sull’argomento, ha ulteriormente sottolineato: “Il tema del carcere, dell’esecuzione penitenziaria, del reato ancora prima, della privazione della libertà personale è strumentalizzato, politico nell’accezione peggiore, propagandistico. Su questo l’Avvocatura deve essere unita nel segnalare i rischi della strumentalizzazione politica di alcuni temi significativi come quelli che attengono al riconoscimento della tutela del diritto. Attenzione alle ricadute di un certo tipo di approccio a questi temi che non è affatto giuridico e che può portare anche a pericolose incursioni”.

“I diritti non hanno nome – ha proseguito –, sono diritti anche i più impopolari come quelli dei detenuti. Alla risposta dell’opinione pubblica si deve rimanere impermeabili”.

“Abbiamo visto episodi dove, a fronte della concessione di permessi premio, sono stati inviati ispettori ministeriali a verificare la correttezza del percorso autorizzativo”, ha proseguito. “Allora, attenzione perché questo va oltre la risposta della vittima: è chiaro che dobbiamo comprendere una risposta che vuole vendetta, la risposta dei familiari congiunti, ma attenzione che questo non diventi lo slogan di uno stato di diritto. L’Avvocatura deve essere compatta. Tutti, Congresso forense, Cnf, Consigli dell’Ordine e avvocati dobbiamo riscoprire quella cultura della legalità oggetto del protocollo e quindi garantire anche con i cittadini iniziative formative e informative”.

“Il Cnf – ha aggiunto – può e deve dare un valore simbolico nell’esserci e un impegno sociale per garantire un messaggio. Bene la riforma Cartabia perché, se non altro, dal punto di vista del valore simbolico, porta la pena al di fuori delle carceri, lo fa con indicazioni importanti sulle pene sostitutive, con il comparto autonomo della giustizia riparativa. Ecco, visto che il tema della risposta sociale e politica è quello di dare ragione alle esigenze umane, comprensibili delle vittime, alloro cosa ripara le vittime? È un percorso dell’anima ma da là dobbiamo partire – ha concluso – perché il tema è prima di tutto culturale”.

Parti controverse nella riforma del penale

Sulla stessa linea Vinicio Nardo, che è anche presidente del Coa di Milano: “La legislatura – ha esordito – è iniziata male, ma finisce meglio. Lo abbiamo scritto in una lettera alla politica prima delle elezioni, nel decreto legislativo di riforma del penale ci sono parti controverse. Parliamo di carcere e sul carcere possiamo dire bene della riforma anche perché durante il ministero della professoressa Cartabia abbiamo avuto anche la nomina di un capo del Dap che finalmente non è stato scelto tra i ranghi della direzione antimafia, segno di una considerazione diversa del carcere: non come un luogo di lotta alla criminalità ma di recupero delle persone”.

“Abbiamo avuto la commissione Ruotolo che si è occupata di problemi per il carcere che riguardano l’innovazione penitenziaria e la salute”, ha proseguito, nel suo intervento. “Il carcere è un luogo opaco e la Commissione per i garanti si scontra con questo muro di opacità, muro di opacità che blocca da sempre gli avvocati. Il messaggio che deve passare in questo congresso e che deve essere uno stimolo agli avvocati per fare qualcosa di più è che non esiste solo il processo di cognizione. Inserire nel codice penale le pene sostitutive è centrale per rafforzare i percorsi trattamentali: c’è un valore simbolico importante. L’idea di applicare già dal giudice che fa il processo di merito la pena sostitutiva, è un’idea che c’è da tempo, ma aver avuto ora la forza e il coraggio di farlo è stato importante, dobbiamo darne atto alla Cartabia”.

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“Anche se nel percorso dalla commissione Lattanzi fino al decreto legislativo che sta per andare in Gazzetta si è perso qualcosa, il pezzo più pregiato, ossia l’affidamento in prova con il patteggiamento”, ha aggiunto. “È chiaro che, a seguito di patteggiamento, poter fruire, nel caso di pene sino a quattro anni, solo della semilibertà o della detenzione domiciliare può non essere un incentivo a patteggiare per avere la misura alternativa. Detto questo, questa riforma penale, questo sistema di procedibilità molto più severo, questo sistema di revoca implicita della querela, ha tutta una serie di aggiustamenti per evitare che il processo sia solo carcere. Ma questo, come Avvocatura, ci deve mettere sull’avviso, perché quando queste misure verranno applicate ci saranno contraccolpi politici e quindi noi dobbiamo prevedere, anticipare, ragionare, preparando il terreno a questa risposta”.

“Ricordo a tutti che c’è stata una circolare del Dap di agosto sul fenomeno dei suicidi, un fenomeno drammatico che però ha aperto una finestra sul mondo del carcere che non è appunto una casa di vetro. Un provvedimento che stabilisce che tra avvocati e istituti penitenziari deve instaurarsi un rapporto diretto affinché l'assistente sociale, quello che oggi si chiama funzionario giuridico pedagogico – ha terminato –, possa rivolgersi all’avvocato per intercettare i problemi del detenuto prima che possa essere troppo tardi”.

L’avvocata Maria Brucale ha fatto un passo indietro nella storia d’Italia. “Il 41 bis è il punto di massima rottura del nostro sistema costituzionale riguardo alla pena. Perché nasce nel 1992, quando l’orrore di quelle stragi allontanava completamente lo sguardo dai diritti costituzionali a cui potevano ambire le persone detenute per quei reati orribili. Nessuno si sarebbe sognato di dire, in quel momento, qualcosa a favore di quei detenuti torturati all'Asinara o a Pianosa. Non si vuole per queste persone la libertà. Si vuole però che siano inserite in un sistema costituzionale della pena e che lo Stato rispetti, anche per loro, quegli obblighi positivi di reintrodurle e di rieducarle e di dare loro una possibilità. Lo Stato dia loro una speranza, cosa che oggi non accade. E io credo che l’Avvocatura debba essere impegnata in modo coeso nel volere che accada”, ha concluso.

Il difficile ruolo dei media sul carcere

Infine, la giornalista Giulia Merlo ha aperto una finestra anche sul ruolo dei media e il carcere. “Noi del mondo del giornalismo facciamo fatica a parlare di questi temi, anche per una ragione legata al lessico. Il carcere – ha sottolineato – è un mondo chiuso, ha terminologie che per gli avvocati hanno un significato a cui noi giornalisti, che questa materia la mastichiamo meno, facciamo fatica a dare un contesto”.

“Immaginate la difficoltà nel rendere questo significato a un pubblico che così professionale non è e soprattutto che vede il carcere come un luogo distante”, ha ricordato. “Anche i giornalisti fanno fatica a interfacciarsi con il carcere, la figura del garante per i detenuti è stata un’istituzione che ci ha molto aiutato a scoprire degli aspetti nascosti, sollevare problematiche che altrimenti sarebbe stato difficile far arrivare all’esterno, che sarebbero rimaste all’interno dell’esecuzione penale, all’interno di quella fase processuale che sempre meno è all’attenzione della stampa”.

“Il processo mediatico – ha sottolineato – si concentra su una fase che non è quella dell’esecuzione penale, ma molto sulle indagini preliminare, sulla fase iniziale del processo. Quel che succede dopo viene raramente portato all’attenzione dell’opinione pubblica. Un grosso problema legato al fatto che il carcere per l’appunto è un luogo chiuso. Un esempio: il Covid ha colpito fuori e dentro il carcere, ma per noi giornalisti avere i numeri dei detenuti malati è stato molto difficile. Il ministero non li dava ai media, ma ai sindacati di polizia penitenziaria. Allora immaginate cosa significa leggere un dato che viene da un sindacato e non da un’istituzione, il valore di raccontare un dato che veniva da un soggetto di parte era molto diminuito. Pian piano – ha detto, infine – il ministero ha capito che bisognava liberalizzarli”.  

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