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"Il Covid mi ha trascinata all'inferno. Salvata dai medici con la loro umanità"

È un racconto ricco di riconoscenza, quello di Maria Teresa Stea, leccese: 18 giorni in terapia semi-intensiva, altri 11 in pneumologia. "Ricordo le urla e la tosse. La notte non si dormiva. Ma il Dea è un'eccellenza"

LECCE – La voce si spezza spesso per l’emozione, nel suo racconto affidato a un paio di lunghi messaggi. È la tensione di chi oggi è consapevole di aver quasi varcato le soglie dell’inferno, quello dantesco, che alla protagonista di questa vicenda è apparso anche in sogno. La risalita, cavalcando la forza di volontà. “Come San Giorgio, ho sconfitto il drago”. Forza di volontà che, però, da sola non sarebbe stata sufficiente. Maria Teresa Stea, leccese, lo sa bene e per questo non fa che ringraziare medici e infermieri che l’hanno tenuta in cura al Dea. Per la loro competenza e la profonda umanità manifestata. Con gesti gentili, carezze sulla mano, frasi sussurrate poco prima di prendere sonno: “Ti vogliamo tutti bene”.

Maria Teresa, che ha passato la settantina d’anni ed è una volontaria dell’associazione Sos per la vita diretta da Rita Tarantino, è fra i tanti che hanno sperimentato sulla propria pelle il dolore che sa infliggere il Covid-19. Poco meno di una ventina di giorni addietro non sapeva bene quale sarebbe stato il suo destino. Oggi, invece, ha di nuovo salde in mano le redini della sua esistenza. Avverte ancora debolezza, certo. Ma riesce a farsi la doccia da sola e a guidare la macchina. “Sembrano piccole cose - precisa -, ma sono grandi conquiste per chi è passato per questo male terribile”.

“Sono stata ricoverata al Dea, in terapia semi-intensiva, per diciotto giorni e per altri undici in pneumologia. E ho il desiderio di raccontarlo perché si parla sempre male delle nostre strutture. Ma il Dea è un luogo di eccellenza. Io, illustre sconosciuta, sono stata benissimo e lì mi sono affidata a questi ragazzi, tutti giovani: mi hanno aiutata a riprendermi la vita”.

Il suo primo ricordo è quello di una notte in cui una dottoressa le si è avvicinata e le ha detto: “Vuoi vivere? Bene, ti trasferisco in terapia semi-intensiva, se collabori con me. Altrimenti ti porto in terapia intensiva. Io ho accettato”. “Da quel momento - prosegue Maria Teresa - ho cominciato a combattere, seguendo tutto ciò che loro mi dicevano, anche se stavo passando dall’inferno”. Inferno che si è manifestato anche in forma di incubi. “La prima o la seconda notte che sostavo lì, non ricordo, mi sono trovata a sognare di vivere le esperienze degli americani nella guerra d’indipedenza, quando gli inglesi chiudevano i vinti in una chiesa, sbarrando l’ingresso e dando fuoco. Ho sognato di far parte di quella gente chiusa in chiesa. Battevo le mani sul casco con violenza, perché volevo uscire a tutti i costi, ma non riuscivo neppure ad aprire gli occhi”.

Poi, l’arrivo degli infermieri. “Forse mi hanno dato un calmante. Ed è da quella notte che ho cominciato a combattere anche perché in sogno mi sono poi apparsi due amici, uno dei quali morto, che mi hanno preso per mano. E da lì ho iniziato la scalata della montagna cava dell’inferno di Dante. Vedevo i diavoli che cercavano di acchiapparmi, ma senza riuscire a toccarmi, perché facevo un passo per volta per allontanarmi da loro”.

5b08b5ff-2d45-48c0-90b4-bac05b0cd703-2Sforzi e sofferenze sono stati immensi e un racconto, forse, non riuscirà mai a descrivere a fondo l’inquietudine e il senso di frustrazione, impotenza. “Non è facile vivere con la testa in un casco, tutto pieno di tubi che mi battevano sulla testa e mi facevano male. Ho dovuto far mettere ovatta per attutire i colpi. E ho sempre cercato con la mente vigile di controllare la mia paura e di andare su, verso la luce. E così che ce l’ho fatta”. “Non potevo mangiare – prosegue Maria Teresa -, avevo il sondino che uscivo dal naso, certe volte avevo bisogno di soffiarmelo, ma controllavo anche quello. E quei ragazzi, quei ragazzi sono stati meravigliosi”.

Particolarmente toccante quanto accaduto una notte. “Una ragazza è venuta vicino al mio letto, mi ha accarezzato la mano e mi ha detto tante parole belle. ‘Su, combatti, devi combattere per la vita, perché ne vale la pena. Ti vogliamo tutti bene’. Tutti questi ragazzi che fanno chilometri, la notte, per tornare a casa e poi sul posto di lavoro: dobbiamo rispettarli”. Maria Teresa spiega di aver avvertito amore. E amore era la parola vigeva nel reparto. “Mi chiamavano così. Dal ragazzo che mi puliva la mattina a quello che mi dava il tè, quando ho iniziato a voler bere qualcosa. Me lo portava ogni pomeriggio e lo sorseggiavo dalla cannuccia, attraverso un buco del casco”.

I messaggi d’affetto, per chi sta soffrendo e lottando, sono importanti. Una terapia nella terapia che arricchisce e infonde speranza. Maria Teresa ne ha avute tante di attestazioni, non solo da parte di chi l’ha avuta in cura, ovviamente, ma anche dai figli, dai fratelli, dagli amici. Sono stati di profondo aiuto. “All’inizio riflettevo su quello che ho passato nella mia vita. Non è stata facile. Ho dovuto sempre combattere, pur essendo nata in una famiglia molto benestante. E in quei giorni mi sembrava di combattere come allora. Ma mi dicevo da sola che avrei raggiunto la meta, ancora una volta, perché tutti mi stavano aspettando”.

f169c0dd-503d-478e-934d-981ef6152d7e-2“Il desiderio di mangiare è stato il primo istinto di vita”, ricorda, ancora, Maria Teresa. “Piano, piano mi hanno tolto il casco e mettendomi i naselli ho iniziato a mangiare”. E il sapore di una semilibertà ritrovata può essere quello che meno ci si aspetta. “La pastina in brodo, fredda, era buona. Credetemi. Era buona, per me il top”. I ricordi, però, si fanno di nuovo bui ripensando al passaggio in pneumologia. “Quella notte ci sono stati dai sessanta ai settanta ricoveri. Chi tossiva, chi gridava, era un’angoscia solo sentirli. Dormire la notte? Un eufemismo. Non si dorme. Ma ho cercato disperatamente di concentrarmi. Così, leggevo. Ho letto sei libri”. E anche grazie alla lettura ha allontanato i pensieri negativi.

Quando è arrivato il momento di lasciarsi alle spalle tutto quanto, però, c’è stata un’altra parentesi di timori. “Faticavo ad alzarmi dal letto. Quando ho dovuto farlo per sedermi sulla sedia a rotelle, non avvertivo più le gambe. Ho avuto paura, quando sono tornata a casa mi sono chiesta come avrei fatto. Ma ci sono riuscita. Con l’aiuto dei miei ragazzi, della stampella e infine da sola. E ora voglio affidare a tutti questo messaggio: abbiate fiducia ne nostri giovani. Andare in ospedale vuole dire farsi aiutare a vivere. Non abbiate paura. Sono competenti e bravi. Bisogna difendersi da questa bestiaccia”.    

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