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Sabato, 20 Aprile 2024
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Roghi & rifiuti: la vocazione al suicidio di una terra ostile alle regole

Il racconto, in forma di narrativa, di un sopralluogo alla periferia di Lecce dopo un devastante incendio e le riflessioni sull'autodistruzione che si sta infliggendo il Salento

Un cesso.

È una delle prime cose su cui si posa l’occhio, ruotando leggermente la testa e osservando dal finestrino di destra. Un vecchio cesso abbrustolito e mezzo inclinato, come un naufrago in mezzo a un mare di terra color carbone, ritocco di pennello finale in un quadro disegnato da un impietoso incendio.

Rallento e la mia Punto incrocia un’altra utilitaria. Procedo a passo di guardia mentre le gomme faticano ad arrampicarsi sui dossi sconnessi nello sterrato e così fa l’altro conducente. I nostri sguardi s’incrociano per un lungo istante e si studiano, mentre un rivolo di sudore mi scende sul collo, nell’inferno di questo maggio anomalo. Sono le tre del pomeriggio, una controra da 30 gradi all’ombra. Scenario da western contemporaneo: non mi piace il suo volto e a lui non piace il mio. Ma nel luogo in cui mi trovo, realizzo che l’anomalia sono proprio io, un “gringo” dalla smorfia sconosciuta. Da qui devono passare davvero in pochi.  

Svolto alla prima traversa utile - credo sia via Capuana - e mi fermo dove l’alto muro di cinta a protezione di una villa proietta uno spicchio di ombra rinfrancante. Erbaccia alta 50 centimetri accanto a un abbozzo di marciapiede, una sedia di plastica abbandonata, intorno il silenzio. Esco dall’auto impugnando la mia Nikon come fosse una pistola. Getto lo sguardo oltre l’angolo, su via Dino Buzzati, la strada che ho percorso per arrivare sul posto, dopo essermi lasciato alle spalle via Giammatteo. L’altra utilitaria non c’è più.

Sono solo, del tutto solo in un ‘non luogo’ che potrebbe essere una periferia di un imprecisato punto alla frontiera del Messico. E invece, mi trovo a meno di 5 chilometri dal centro di Lecce e davanti a me ho una campagna chiusa in un recinto di rete devastata da un rogo, per decine e decine di metri.

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Una folata di vento improvvisa solleva un nugolo di polvere e cenere che m’investe e si appiccica alla polo sudata. E mentre penso che tornerò a casa puzzando come un copertone bruciato, i miei occhi non vedono più solo quel cesso seminabissato in una terra contaminata, ma molto altro: un oceano di pattume. Scatolette di tonno, pneumatici, laterizi, plastiche, un enorme palo delle telecomunicazioni venuto giù come sotto un bombardamento e Dio solo sa cos’altro, ormai deformato e irriconoscibile.

Avido di catturare sensazioni, scatto una foto dietro l’altra di quell’enorme terreno dove gli alberi si mescolano ai rifiuti che il fuoco ha divorato, sprigionando gas nefasti. E chissà quanti veleni ha assorbito quella terra. E ciò che i miei occhi vedono è persino nulla, ma davvero nulla rispetto a quello che alcune alte e impenetrabili pareti circostanti nascondono: una gigantesca discarica a cielo aperto di almeno un ettaro che sempre il fuoco ha rabbiosamente attaccato. Fuoco rivelatore, come il cuore di uno dei più noti racconti di Poe, se è vero che forse solo così si è arrivati a una scoperta inattesa e si è aperta un’indagine (ne abbiamo scritto venerdì, ndr).   

Esistono luoghi inaccessibili che nascondono turpi segreti. Già, ma tutto ciò che c’era all’esterno di quel recinto - per carità, minima parte, eppur sempre indecorosa e anche vistosa -, è mai stato segnalato, avvistato, indagato? Le discariche abusive non germogliano come praterie.

Perlustro la zona un po’ più a fondo e poco oltre i punti edificati, campi incolti a perdita d’occhio ed enormi pale eoliche all’orizzonte. Pannelli di eternit e pneumatici sono accatastati al fianco di un tratturo e chissà cos’altro troverei, se solo potessi addentrarmi.

Il fuoco arriverà prima o poi anche qui, c’è da giurarlo e quei rifiuti sono già lì, pronti a dare il loro piccolo, ma significativo contributo nella distruzione sistematica del pianeta. Davanti a una pila di pneumatici in mezzo all’erba che aspetta solo di sprigionare monossido di carbonio e polveri sottili, mi chiedo se proprio il fatto di essere dotato di un livello più alto di consapevolezza non sia la condanna più grande dell’uomo. Sì, consapevole di essere l’artefice di tutto questo male. 

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***

Qui finisce il racconto, in forma di narrativa, di un nostro sopralluogo svolto nelle zone intorno a via Dino Buzzati qualche giorno dopo aver dato la notizia del grande incendio spento dai vigili del fuoco dentro una megadiscarica abusiva invisibile dall’esterno, e poco prima che la polizia locale sequestrasse quell’area. E qui inizia la riflessione, basata proprio su ciò che è accaduto all’esterno, fin troppo simile a tante altre situazioni in tutta la provincia, e che non è stato raccontato.

Le fiamme, infatti, si sono impossessate di aree che erano a loro volta minate da rifiuti in mezzo all'erba alta e che di certo non sono nascoste agli occhi da possenti mura. Anzi, non è improbabile che proprio da quegli incendi, il fuoco, spinto dal vento, si sia propagato nella ben più grande discarica chiusa. Inutile anche dirlo, le immagini parlano da sé: mai nessuna bonifica di rifiuti, mai nessuna pulizia preventiva dei terreni per scongiurare i roghi.   

Pur non essendo uno dei peggiori casi di cronaca locale sullo stesso filone, quello di via Buzzati assurge comunque a emblema di due grossi problemi convergenti, nel Salento: appunto, quello dell’abbandono indiscriminato di rifiuti e quello degli incendi, poco gratificanti biglietti da visita di un territorio che vorrebbe strutturare parte sostanziale della propria economia sulla vocazione turistica. E che invece, a volte, sembra avere più la vocazione al suicidio.

La galleria degli orrori

Sugli incendi, dietro i quali c’è quasi sempre la mano dell’uomo, è già stata fatta una profonda e provocatoria riflessione nei giorni scorsi su queste stesse colonne. Occorre ora parlare anche dei rifiuti, problema che corre su binari paralleli. Saccheggiando, in modo un po’ sacrilego, dal repertorio del sociologo Max Weber, potremmo dire che fra i due fenomeni esistono affinità elettive.    

Ma sul fronte, come si stanno muovendo le istituzioni? I comuni, si sa, negli ultimi anni si stanno industriando soprattutto con l’acquisizione e l’installazione in punti sensibili di fototrappole. E non manca nemmeno l’uso di droni. La tecnologia viene in supporto ed è un passo in avanti molto importante, anche se non risolutivo. Insomma, non può essere la panacea di tutti i mali. I controlli, anche con pattugliamenti, sembrano sempre troppo pochi rispetto al danno percepito. Ma si sa, la penisola salentina è vasta, difficile da coprire per intero, centimetro per centimetro, e gli uomini e i mezzi da impiegare, sempre in numero inferiore rispetto a quanti ne occorrerebbero.

Ma non si può demandare tutto solo ai controlli

Bisogna, però, anche avere l'onestà intellettuale di ammettere che non si può demandare tutto sempre e solo al controllo delle autorità. È la più facile delle autoassoluzoni: prendersela sempre con qualche ente che non verifica, non ispeziona, non si apposta come ci si aspetterebbe.

La verità è che il Salento non si libererà mai da quest’incubo al quale è incatenato senza la formazione di una reale coscienza civica, che non è semplicemente segnalare ciò che non funziona, ma partire dalle azioni quotidiane. Sono i pessimi comportamenti che opprimono ogni vagito di risorgimento del territorio, dal singolo cittadino che non paga la Tari e deve smaltire in qualche modo muovendosi di notte come un ladro, all’azienda che scaraventa gli scarti in discarica abusiva per risparmiare sui costi di smaltimento.

È un po’ come per i traffici di droga. Per quanti arresti si possano fare, per quante organizzazioni si possano mai mettere in ginocchio, finché vi sarà una domanda del mercato, esisterà sempre qualcuno pronto a mettersi in gioco.

Per estensione, lo stesso concetto si può applicare ai rifiuti. Anche se in questo caso, più che di domanda di un mercato illecito, si può parlare di sciatteria, superficialità, egoismo, meschino interesse personale che sopravanza il bene comune. In altre parole, di una fin troppo diffusa ostilità alle regole.

E così, il Salento resterà per sempre una terra impantanata nel fango dell’immobilismo, sarà il rammarico di un’occasione eternamente mancata d’un soffio, l'ipocrisia di una bella cartolina dai colori brillanti dietro la quale però covano lacune immense di cui anche i turisti cominciano ad accorgersi, se non inizierà a fare i conti con il rispetto delle regole.

Già, ma purtroppo, a queste latitudini, se non si è ancora fermi all’anno zero, poco ci manca. E siccome nulla è più resistente e radicato di una cattiva abitudine, non si può che sperare nella sensibilità delle nuove generazioni. 

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