“Che ci faccio qui?” Il ritorno alle relazioni nel docu-reality di Iannacone
In onda dal 9 aprile la nuova serie di “Che ci faccio qui?” di Domenico Iannacone. In questa intervista, il giornalista e autore televisivo parla della quinta stagione del docu-reality, del suo podcast su Radio Due, di giornalismo, pandemia e guerra
LECCE - In onda dal 9 aprile la nuova serie di “Che ci faccio qui?” di Domenico Iannacone. In questa intervista, il giornalista e autore televisivo parla della quinta stagione del docu-reality, del suo podcast su Radio Due, di giornalismo, pandemia e guerra.
Nella prima puntata della nuova serie di “Che ci faccio qui?” andata in onda sabato 9 aprile è tornato a Borgo Vecchio, un quartiere centrale di Palermo, ma di fatto periferico. Tra i vari protagonisti ci sono Carmelo, Roberto, Alessio e Mark, ragazzi che aveva incontrato cinque anni fa nella puntata intitolata Ti voglio amare per il programma “I Dieci comandamenti”. Cosa l’ha colpita maggiormente dell’evoluzione di queste esistenze marginali e proprio per questo ultracontemporanee?
"La cosa che più mi ha colpito è l’idea che in quel posto benché tutto sia rimasto tale e quale, ci sia stata un’accelerazione improvvisa per la vita di quei ragazzi. È chiaro che ci sono molte cose rimaste in sospeso: la loro vita lavorativa, la loro sistemazione in generale, ma dal punto di vista dell’energia, della vitalità e della voglia di esistere, lì, c’è stata un’accelerazione, tant’è che due di quei ragazzi sono diventati padri. Un’accelerazione che ribalta il concetto di sicurezza della vita. Spesso dove più si è fragili, il motore della vita è più forte. Per affrontare questo ribaltamento ho rimesso in gioco la mia visione in qualche modo piccolo borghese per la quale qualunque tipo di scelta necessita di tempo e sicurezze. E lì forse non ci sono né una né l’altra eppure questi ragazzi hanno di fatto compiuto delle scelte perché dove vivono è come se la vita avesse quasi una spinta endogena, dinamiche diverse da altri luoghi".
Questa nuova serie si compone di cinque puntate, e il focus è il ritorno alle relazioni. Che cosa intende?
"L’idea delle relazioni nasce dal periodo storico che abbiamo vissuto; per due anni abbiamo vissuto una sorta di straniamento emozionale, abbiamo vissuto concentrati sull’idea di sconfiggere la malattia del secolo che ci stava distruggendo la vita e, per l’isolamento forzato, anche le relazioni. Una fase durata tantissimo che ha fatto arretrare le persone. Si parlava di meno, c’era meno interazione e non si stava insieme, vicini. Poi è arrivata la guerra, la guerra di per sé ha in qualche modo appesantito, accelerato questo processo per cui alla fine è come se non avessimo avuto il tempo di riprenderci da uno shock che ne è subentrato subito un altro. Uno shock che sta continuando a renderci quasi inebetiti, bloccati rispetto a quello che ci viene proposto, parlo anche della tv, dei giornali. Cosa che crea un ulteriore arretramento, una chiusura verso il mondo. Assistiamo a una comunicazione, seppur analitica, sempre simile e reiterata. Vediamo le stesse scene da una sessantina di giorni che ci rendono più atterriti ma anche più freddi. Per me relazione significa tornare a parlare, tornare ad attraversare i luoghi, tornare a sentire il calore umano. Solo mettendo in pratica queste azioni si può riavviare il meccanismo di rinascita rispetto al gelo attuale della vita".
Cosa pensa dell’abuso della parola “narrazione”? e in particolare della narrazione della guerra tra Russia e Ucraina?
"Oggi come oggi la narrazione della guerra non avrebbe bisogno di parole. Quel tipo di narrazione verbale non porta a nulla, il giornalista dice e ridice senza dire di fatto nulla. Vorrei che ci fossero le immagini e la voce di chi la sta vivendo. Per il resto non credo che esista una narrazione, si sta solo alzando l’asticella del racconto più duro; i corpi che un tempo la televisione mal digeriva, oggi sono diventati una sorta di pasto quotidiano a tutte le ore. Non bisogna negare la realtà ma creare una sorta di dignità attorno a ciò che accade perché quando si racconta in maniera speculativa, si manca di rispetto a chi sta vivendo veramente quella situazione così difficile e dolorosa".
I suoi video-racconti, collettivi o individuali che siano, hanno un ritmo lento, pause poetiche che valorizzano l’esperienza della visione da parte del pubblico e un’estrema cura; la televisione di oggi oscilla tra giornalismo per mutuare termine legati al cibo unpo’ fast e un po’ junk con un consumo rapido e fagocitante di format già pronti che generano solo un morboso binge watching, un’abbuffata d’immagini. Possiamo definire quello di Domenico Iannacone slow journalism?
"Se pensa che il tempo possa dare significato a quello che facciamo accetto volentieri questa definizione. Serve cibo buono per crescere bene. Questo si può rapportare anche alla televisione,la televisione dovrebbe avere dei tempi più lenti perché quello che si fa, si dice e si porta sullo schermo possa avere un senso anche rispetto a una visione più generale e che non sia soltanto un mordi e fuggi. Dobbiamo cibarci con un nutrimento che non provochi bulimia delle immagini. Potrei farle una domanda, cosa ricorda della guerra tra tutte le immagini che ha visto? A me ha sconvolto l’immagine della mano femminile con le unghie laccate di rosso. Ha citato una delle immagini più dure, però al di là di quell’immagine terribile, siamo così bombardati che non ricordiamo praticamente nulla. Si ricorda un palazzo, una cosa specifica? Abbiamo solo un ricordo vago, anche noi siamo continuamente bombardati. La mimesi porta al vuoto e annulla le emozioni".
Da ieri, 19 aprile, su RadioDue è partito Il sillabario delle emozioni, un podcast in sei puntate che parla delle storie che ha incontrato negli anni. Può spiegarci di cosa si tratta?
"È una prova sulla voce, sul racconto fatto senza immagini come se le immagini fossero dentro di me e io le trasmettessi a chi sente il podcast. È un racconto in cui però si intrecciano anche le mie emozioni,questa volta parlo, dico quello che penso, le storie si riannodano e in questo intreccio ci finisce dentro anche quella che è la mia formazione, ad esempio il cinema e in particolare quello neorealista. Nelle prime due puntate ci sono proprio dei chiari messaggi sul perché io abbia fatto una tv rallentata, che nasce da un episodio capitatomi quando facevo l’inviato per una trasmissione televisiva, e in fase di montaggio volevano tagliare le mie pause. Questa cosa l’ho vissuta come un’amputazione rispetto a ciò che volevo raccontare, e mi sono detto che per continuare a fare questo lavoro dovevo iniziare a reintrodurre gli elementi della comunicazione che c’è nella vita: parlare, ascoltare e anche stare in silenzio, tutti elementi naturali. La televisione invece crea altri movimenti, altre metriche. Quindi la radio è un modo per esprimermi con un altro tipo di emozione, quella dettata dalla parola, la parola che riesce a farti immaginare le cose. Per me è stata una prova, un confrontarmi con qualcos’altro e mi è piaciuto. Credo che alla fine farò anche radio perché in questo periodo così disgraziato per la televisione forse c’è bisogno di riposarsi, di avere un rapporto più defilato e profondo. E la voce crea profondità, viene da dentro e tocca l’anima, quindi è un’esperienza che vorrei riprendere".
Domenico Iannacone (Torella del Sannio, 7 aprile 1962) inizia la carriera giornalistica con Il Corriere del Molise e Il Quotidiano del Molise, poi approda all’emittente locale Teleregione di cui diventa caporedattore.
La collaborazione con Rai3 inizia nel 2001 con la trasmissione “Okkupati, magazine sul mondo del lavoro”, poi è inviato per “Ballarò” e “W l’Italia in diretta”. Dal 2007 al 2012 firma il programma “Presa diretta” con Riccardo Iacona.
Vince cinque volte il Premio Ilaria Alpi nella sezione “miglior reportage italiano lungo” con Il Terzo Mondo, una discesa negli inferi di Scampia (2008); Storia di un’Italia incosciente (2010); Evasori (2011) e il premio della critica e la sezione CoopAmbiente per il reportage La terra dei fuochi (2013).
Dal 2013 al 2018 è autore e conduttore del programma “I dieci comandamenti” e dal 2019 di “Che ci faccio qui?” la cui quinta serie è in onda dallo scorso 9 aprile ogni sabato sera alle 21.30 su Rai3.