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Cartoline dal Salento in fiamme. L'incuria siamo noi, nessuno si senta escluso

Ulivi e sterpaglie bruciati, meravigliosi tratti di costa in fumo e persino pericolanti. Un copione che si ripropone ogni anno per un problema che non si vuole realmente risolvere. Bisogna cambiare passo e iniziare ad agire con fermezza. In primis, sui proprietari dei terreni lasciati incolti, per le loro condotte omissive

I vigili del fuoco si arrampicano fino alla fine del turno trascinandosi con le dita aggrappate al manicotto. Forze residue, volti tirati e rigati di fuliggine. Puzzano come tizzoni e hanno le sopracciglia aggrottate dei soldati che combattono per l’onore della bandiera, ma sanno che la guerra non finirà mai. Soprattutto, che non la vinceranno mai. Questa, la situazione quotidiana, nell’anno 2021, zona bianca. Si torna ai vecchi costumi. Non sempre i migliori.

Proviamo a riavvolgere il nastro della memoria fino all’anno scorso. Stesso periodo, più o meno. Il terrore della pandemia, il vaccino ancora nei pensieri di Dio, la chiusura totale dell’Italia. Estinti anche gli incendi, a monte. Semplicemente, non divampavano. Accadeva per la prima volta dopo decenni. Piccolo promemoria per chi ancora credesse alla favoletta dell’autocombustione, fenomeno di tale rarità che ogni singolo episodio documentato dovrebbe finire sotto la lente d’ingrandimento di Alberto Angela.

La verità è un’altra. La conoscono tutti.  Qui da noi esiste l’ossessione della pulizia con il fuoco, cui si aggiunge, di tanto in tanto, qualche piromane perditempo che non ha alcun movente. È un retaggio culturale che andrebbe spento a secchiate di buon senso, senza sprecare sempre acqua. Ma nulla cambia – questo è il problema – se per primi siamo ingessati noi stessi di fronte al problema. Non solo le amministrazioni. Noi, tutti.  A nulla vale la normativa regionale che impone il divieto di bruciatura dei residui vegetali dal 1 giugno al 30 settembre (l'ultima modifica è dello scorso aprile). 

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Vicenda paradigmatica, la tortuosa litoranea che da Porto Badisco regala paesaggi mozzafiato fino a Santa Cesarea Terme. Uno dei luoghi più belli del mondo, sventrato da fiamme incontrollate. Accadeva appena il 14 giugno scorso: fiamme talmente estese da sfiancare la stessa natura. Radici di alberi sfibrate, pietre rotolate fino alla strada, di conseguenza costone pericolante, senza più contenimento. Al punto da indurre il comando provinciale dei vigili del fuoco a richiedere la chiusura del tratto il giorno stesso (nota inviata in Prefettura), per evitare pericoli ai passanti. Sì, perché, modificata la morfologia, lì rischia davvero di crollare tutto. E quindi, largo alle transenne. 

È del giorno dopo l’ordinanza della polizia locale di Santa Cesarea Terme che intima ai proprietari dei luoghi colpiti a “tagliare e rimuovere con urgenza tutti gli alberi danneggiati dal fuoco che interferiscono in qualche modo con la corretta fruibilità e funzionalità della strada, onde evitare pericolo per la pubblica incolumità” (nota protocollata all’albo pretorio il 15 giugno), altrimenti son scudisciate a suon di multe.

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Tutto suona po’ tardivo, la verità. Un dejà vu, l’intervento a posteriori. E altrove non va meglio, se è vero che in estate il Salento intero brucia ogni giorno, sempre negli stessi punti, da Parco Rauccio al Capo di Leuca, con una tale intensità, frequenza e prevedibilità che si potrebbero fare scommesse. “Quando toccherà, di nuovo, alle Cesine?”. Sono aperte le puntate.

Il problema è che si previene poco. E pensare che, invece di inviare ogni volta squadriglie di Canadair che farebbero concorrenza per numero agli aerei dei giapponesi che attaccarono la flotta navale americana a Pearl Harbor, con costi per il contribuente da capogiro, basterebbero pochi spiccioli per “tagliare” i terreni con trattori e creare fasce protettive, in grado di non far propagare il fuoco. Evitando persino assurde tragedie, come quella fra Surbo e Torre Rinalda. La terza dell’anno. Una statistica molto preoccupante, ma che sembra non interessare a molti. 

Forse bisognerebbe cambiare strategia. Iniziare ad agire sui proprietari dei fondi inadempienti per le loro evidenti omissioni. Da qualche parte bisogna partire, perché gli appelli cadono nel vuoto e perché, in fin dei conti, non esistono intoccabili. Piuttosto, deve esistere solo la volontà di porre un argine serio a un problema che si trascina da troppo tempo e che sta diventando una piaga. Non basta denunciare i singoli autori di incendi colposi, se e quando colti in flagranza (non proprio semplice). Forse, bisogna iniziare ad assumere provvedimenti anche verso coloro che, non mettendo in atto semplici accorgimenti normativi, ma che dovrebbero provenire in primis dal buonsenso, consentono al fuoco di propagarsi. Attori pubblici e privati. Anche perché a vote convergono più problemi. E son dolori.

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L’altra sera, per esempio, sulla complanare fra via Puglia e via Camassa, quintali di immondizia accatastati sul ciglio – un’altra piaga infinita del territorio - sono finiti in fiamme, producendo diossina, e, ovviamente anche la vegetazione ne ha pagato le spese. Forse opera dei soliti sporcaccioni che, pur di continuare a vivere in maniera sommersa e a non pagare le tasse o il prezzo di smaltimento, si disfano dell’immondizia nelle campagne, bruciando tutto per far scomparire ogni elemento di riconducibilità.

Tutto questo ci riguarda da vicino. Riguarda l’idea che abbiamo del Salento, terra che, in questo momento di possibile ripresa economica, dovrebbe fornire una carta d’identità diversa, per puntare al turismo di qualità, ringraziando Madre Natura per le bellezze che le ha regalato e preservandole con orgoglio. Ma a volte si ha la sensazione di essere all’anno zero e che nemmeno lo scenario di migliaia di tronchi di ulivo che sembrano contorcersi su sé stessi per il dolore, sconfitti dalle fiamme, incuta empatia.

La storia siamo noi, cantava De Gregori. L’incuria siamo noi, mi viene da dire. Nessuno si senta escluso.

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