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Finti part-time e “ristori” ai datori: l’incubo dei commessi nel sottobosco dei piccoli supermercati

Circa il 71 per cento dei negozi di generi alimentari del Salento è composto da minimarket. Mentre nella grande distribuzione, nonostante alcune criticità, i contratti di lavoro sono più o meno rispettati, in molte delle piccole realtà accordi “pirata” e orari impossibili. In questo modo si riesce a proporre merce più conveniente, ma a scapito delle condizioni dei dipendenti

LECCE – Per alcuni aspetti, per una volta, la tanto demonizzata grande distribuzione sembra non essere il male assoluto. Per chi è in cerca di lavoro infatti, un posto come commesso è spesso l’unica alternativa possibile. Approdo obbligatorio. Soprattutto nei supermercati che, con la loro presenza capillare, offrono uno sbocco anche nei posti più remoti della provincia. Ma è un mondo lavorativo frammentato e disomogeneo, composto in particolar modo da piccole realtà aziendali che si trasformano in giungle contrattuali.

O in logiche da “padroncino”. La regola molto meridionale del “ringrazia se ti sto offrendo un lavoro”. La fotografia salentina che abbiamo sviluppato tramite i dati che ci ha fornito la Camera di Commercio leccese, restituisce un panorama fatto di circa 71 per cento di minimarket, al di sotto dei 400 metri quadrati e con pochi dipendenti. Al 30 giugno del 2022 i negozi di alimentari di piccole dimensioni sono 816 su un totale di mille e 148 attività dello stesso settore. Sono 198 quelli considerati come supermercati (esercizi di superficie superiore ai 400 metri quadrati) e solo uno, in provincia, è etichettato come ipermercato (superficie al di sopra dei 2mila e 500 metri quadrati).

Quelle restanti sono attività relative alla vendita specifica di prodotti surgelati e altri generi. In questi 816 minimarket vi lavorano duemila e 282 persone. Nei supermercati mille e 836. Si fa riferimento a coloro che hanno un contratto. Le principali anomalie rilevate in termini contrattuali, tuttavia, emergono proprio da quelle piccole realtà commerciali, magari affiliate alle grandi catene ma autonome nella gestione dei dipendenti. I primi, dipendenti della “grande distribuzione”, possono contare su uno stipendio di circa mille e 500 euro, con tredicesima e quattordicesima, straordinari riconosciuti (il più delle volte). Coloro che sono impiegati in piccoli negozi, spesso non superano gli 800 euro di compenso.

Va da sé che generalizzare non è mai un bene, né tantomeno corretto. A fronte però di quei minimarket che si muovono nel solco di regolarità fiscali e contrattuali, vi è però un fitto sottobosco di piccole realtà che agiscono in barba al contratto collettivo nazionale per i dipendenti del terziario, della distribuzione e dei servizi: che è uno dei più utilizzati in generale nel commercio. Non parliamo soltanto dei commessi impiegati nel settore alimentare, ma vale anche per coloro che lavorano nei negozi di abbigliamento, nei saloni di parrucchieri e centri estetici e via dicendo. “Dopo aver lavorato sei anni nel reparto di Ortofrutta di un supermercato del basso Salento, con sette dipendenti, mi sono trasferita nella provincia di Milano e la musica è cambiata”, racconta Maria (nome di fantasia), che ora è dipendente di una nota catena.

 “La tredicesima e la quattordicesima, come gli straordinari retribuiti, prima esistevano soltanto nella mia fantasia. Mi ritrovavo a lavorare anche per 14 ore, con due di pausa pranzo, costretta a effettuare le pulizie sia in entrata, che in uscita. Per non parlare del Tfr (il trattamento di fine rapporto, ndr): quando mi sono trasferita in Lombardia e ho lasciato il vecchio datore, i conti non tornavano per nulla”.

Schegge di (terribile) quotidianità arrivano anche da un’altra ex commessa in un minimarket della provincia: “La mia prima esperienza lavorativa è stata fortunatamente poi anche l’ultima, perché intanto sono diventata madre di due bimbe. Quando ero impiegata nel reparto Macelleria mi toccavano orari massacranti: costretta a entrare e uscire continuamente dalla cella frigorifera senza neppure protezioni termiche. Sottopagata nonostante coprissi una fascia di tempo da mattina a sera, con orario spezzato”.

Sono soltanto alcuni degli aspetti evidenziati dai lavoratori. E a proposito di maternità, un attuale dipendente di un piccolo market ha aggiunto: “Una mia collega di alcuni fa continuava a prestare servizio incinta, nonostante avesse presentato un certificato medico ai datori”.

Orari “spezzati” la grande croce nera sulle teste dei dipendenti. Contratti a tempo determinato cambiati in corso d’opera. Contratti modificati anche in occasione del cambio di ragione sociale delle attività, che fanno perdere l’anzianità ai lavoratori. E ancora buste paga fittizie: commessi e commesse inquadrati come part-time, ma impiegati per ben più di un full-time. Venti ore settimanali sulla carta, quaranta effettive lavorate.

L’elenco delle irregolarità prosegue con aspetti ancora più sostanziali, come ci ha spiegato il segretario generale della Filcams Cgil Lecce, Mirko Moscaggiuri (in foto). “Assistiamo non soltanto ai finti part-time, in cui i lavoratori svolgono invece un turno pieno. Ma purtroppo assistiamo anche a un altro problema, che  è quello dei ristori a fine mese: se il datore versa un bonifico di 900 euro, se ne fa restituire 300 dal lavoratore. Le indicazioni che suggeriamo noi del sindacato è quello di non restituire nulla”.

Un fenomeno diffuso, a giudicare dall’ufficio vertenze delle organizzazioni sindacali, che utilizza la leva del bisogno dei commessi. “Complesso agire in questi casi, poiché il lavoratore bussa ai nostri uffici solo post fine rapporto. Ma soltanto una minima parte riuscirà a operare il recupero di quelle somme, diciamo meno del 10 per cento”, prosegue Moscaggiuri. “Occorre un’azione ispettiva e più controlli, accanto alle denunce che noi avanziamo attraverso gli organi di stampa. Non è semplice nell’universo delle attività nei paesi più piccoli. Nella grande distribuzione, nel bene o nel IMG_8829-2male, si assiste a una forte sindacalizzazione e verifiche da parte degli ispettori”, spiega il sindacalista della Cgil.

Il punto è che contratti sono al di sotto degli standard imposti da quelli concordati coi sindacati confederali, Cgil, Cisl e Uil, ne viene fuori anche un altro effetto collaterale: quello della concorrenza sleale. Vengono abbattuti i costi a scapito dei lavoratori: operando a basso costo, un piccolo negozio potrà anche offrire maggiori sconti alla merce esposta sugli scaffali. Come pareggiare dunque quel gap tra grande e piccola distribuzione?

“Non dobbiamo abbassare il livello dei diritti. Occorre un cambio di passo a livello di mentalità e un rispetto delle regole in tutti i sensi da entrambe le parti: sia da parte del datore di lavoro, sia dal lavoratore nei riguardi dell’azienda. Non vogliamo più che ci siano situazioni in cui il dipendente debba sentirsi lì come fosse avesse ottenuto un favore: il lavoratore è una risorsa. Noi vogliamo che ci sia veramente quel rispetto verso i contratti nazionali del lavoro che vengono siglati dalle parti datoriali e dalle associazioni sindacali. Sono regole di gioco necessarie a regolamentare il mercato. Le logiche del libero mercato lasciato a se stesso, senza regole, non funzionano”, conclude Moscaggiuri.

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