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Dagli Stati Uniti

Se l'opinione diventa un fatto: il sabotaggio della divulgazione scientifica

All'intervista, pubblicata ieri, sul rapporto complicato tra comunicazione e scienza, fa seguito un contributo inviato in redazione da un fisico medico salentino, in servizio presso la prestigiosa Duke University

LECCE - L'intervista, pubblicata ieri, sul rapporto tra scienza e comunicazione nell'epoca della pandemia, tra informazione e fake news, ha innescato una prima scintilla: il contributo che dagli Stati Uniti ci ha inviato Francesco Ria, fisico medico presso la prestigiosa Duke University. Originario di Collepasso, il ricercatore è stato anche coinvolto con il suo gruppo di lavoro in attività di ricerca sulla diagnosi del Covid. 

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Egregio direttore, scrivo in relazione all’articolo Scienza e comunicazione in pandemia: gli effetti collaterali di un intreccio a rischio, contenente un’intervista al presidente del Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti, Elio Donno, che ho letto con interesse. Ho colto con piacere lo sforzo nell’interrogarsi sugli scenari comunicativi emersi in questi ultimi due anni e sulle difficoltà incontrate nel racconto della pandemia, delle evidenze scientifiche e nel tentativo di contenere il proliferare di informazioni false. Dibattiti come questo non possono che arricchire la comunità giornalistica e i lettori e pongono interessanti spunti di riflessione.

Confesso che da ricercatore in ambito scientifico e da giornalista pubblicista (assolutamente poco attivo in quest’ultima professione) mi sono chiesto spesso, nel corso dell’ultimo biennio, come scienza e comunicazione di massa possano dialogare in modo efficace. Non ho trovato una risposta soddisfacente. Ma alcune riflessioni spero di poterle condividere con lei, i suoi collaboratori ed i lettori.

Mi libero subito dei pensieri riguardanti le notizie false (fake news, se vi piace l’inglese). Sono sempre esistite e sempre esisteranno. Cresciuto a Collepasso, tipico paese del Salento, sono abituato a vedere gruppetti di compaesani dibattere sulle questioni di attualità ai quattro angoli della piazza. Alcuni di loro, da sempre, hanno soluzioni per qualsiasi problema affligga la nostra galassia. Li ho sentiti dibattere e avere la proposta giusta per i problemi energetici del mondo, per il conflitto israelo-palestinese, per la squadra di calcio di terza categoria e per risollevare il bilancio dello Stato. Erano lì 30 anni fa e sono lì ancora oggi a discorrere sulla pandemia. Bellissime dinamiche eredi delle agorà greche e dei fori romani. Prima dell’avvento dei social media queste considerazioni difficilmente uscivano fuori dalle piazze dei paesi. Oggi sono sparate in rete e diventano globali. Bisognerebbe trattarle per quelle che sono. Chiacchiere da bar. Stop. Non ho mai visto un giornalista intervistare un mio compaesano che in piazza affermava di aver trovato la soluzione per risolvere il problema del riscaldamento globale. Non capisco perchè, dopo l’avvento dei social media, il giornalista senta l’urgenza di dare diritto di tribuna anche all’ultimo pettegolo di paese. E’ dovere del giornalista verificare autorevolezza e fondatezza delle fonti.

Riguardo la diffusione delle notizie di carattere scientifico, invece, il discorso è a mio giudizio più complicato. Una prima considerazione riguarda le tempistiche della divulgazione. La comunicazione di massa contemporanea è frenetica. Velocissima. Istantanea. Ha tempi assolutamente inconciliabili con quelli della scienza. Pubblicare un articolo scientico richiede mesi e spesso anni di lavoro di ricerca. Settimane per la redazione. Poi l’invio ad una rivista. E altri interminabili mesi per la revisione. Questo per garantire che lo studio pubblicato risponda a criteri di integrità scientifica e possa diventare patrimonio dell’intera comunità. Quando un uomo di scienza risponde ad una domanda di un giornalista, sta compiendo uno sforzo di sintesi non indifferente, riassumendo le sue conoscenze e quelle dei colleghi dei quali ha letto le ricerche. Rispondere ad una domanda sul futuro, però, è sempre un azzardo. Da fisico medico posso prevedere come saranno le apparecchiature TC tra dieci anni, perchè leggo gli studi, faccio ricerca, partecipo a congressi e seminari. Ma non posso offrire la certezza di nulla. La mia è solo una supposizione. Informata, ma è un’opinione. Che vale sicuramente di più rispetto a quella del mio amico ragioniere all’angolo della piazza (che ne sa molto più di me di ragioneria, ovvio), ma è pur sempre una supposizione.

Da questo punto di vista credo che il giornalismo contemporaneo, soprattutto quello televisivo, abbia palesato una certa sofferenza durante questa pandemia. Da un paio di decenni, infatti, il giornalismo ha sostituito l’opinione al fatto. Il talk-show all’approfondimento. Il litigio alla discussione civile. Ed ecco che lo spettatore non è più abituato a discernere. E trasforma l’opinione, seppur informata dello scienziato, in fatto certo. E rimane deluso se quell’opinone non diviene realtà finendo per perdere fiducia, tanto nella scienza, quanto nel giornalismo. Spero che questi ultimi due anni impongano una riflessione anche sulla separazione efficace tra fatto ed opinione nel giornalismo contemporaneo.

Voglio concludere con due punti che, secondo me, sono stati un poco trascurati in questi ultimi tempi. Il primo riguarda i tempi necessari alla pubblicazione scientifica, cui accennavo sopra. I mesi necessari alla revisione di uno studio si basano sulla pratica della revisione tra pari (peer review). Significa che quando una rivista riceve una proposta di articolo, provenga esso da uno studente al primo anno di università o da un premio Nobel, questo viene inviato ad alcuni esperti del settore, colleghi dei proponenti, che ne valutano le metodiche, i risultati, le motivazioni e le conclusioni. E suggeriscono se pubblicarlo o meno. Nel caso chiedendo anche integrazioni sperimentali o di analisi (non oso immaginare cosa accadrebbe se si applicasse lo stesso principio anche alla stampa generalista). Quando un articolo scientifico viene pubblicato, ha passato tutta una serie di controlli che lo rendono poi patrimonio della comunità scientifica. Ovvio che ci siano tante fesserie scritte anche negli articoli scientifici, ma questo sistema sta garantendo il progresso della scienza e della medicina con risultati soddisfacenti. Basta vedere a che età si moriva in media 50 anni fa e a che età si muore oggi.

La seconda considerazione finale riguarda ciò che è stato fatto in questi due anni di pandemia dal punto di vista del progresso medico. Mai nella storia si era affrontata un’emergenza sanitaria con tale velocità ed efficacia. In soli 24 mesi conosciamo tutto del virus, sappiamo diagnosticarlo con efficacia, sappiamo come si trasmette, abbiamo dei vaccini per attenuarne la diffusione e i sintomi. In due anni. Un nulla nella storia dell’umanità. Pensiamo a quanti secoli ci sono voluti per combattere malattie e pestilenze che hanno distrutto milioni di vite fino a pochi decenni fa. Ovvio che questa pandemia abbia impattato anche sulla qualità della vita, ma la popolazione non è stata decimata come accadeva in passato e di questo va dato merito esclusivamente alla scienza. I dati riguardanti l’impatto delle pubblicazioni scientifiche sono chiarissimi in merito. Uno degli indici per valutare la diffusione di una rivista scientifica, ad esempio, è il cite score di Scopus (https://www.scopus.com/sources). Il cite score per tre delle più importanti riviste in ambito medico (Lancet, Nature Medicine e il New England Journal of Medicine) è aumentato tra il 22% e il 36% nel 2020 rispetto all’anno precedente. Persino nel minuscolo settore della fisica medica nel quale lavoro, il Journal of Medical Physics ha visto crescere il cite score del 17% nello stesso periodo. Questo significa che i ricercatori di tutto il mondo hanno lavorato di più convogliando i propri sforzi nel combattere il nemico comune.

Con il mio gruppo, sin dall’inizio della pandemia, siamo stati coinvolti in alcune ricerche riguardanti la diagnosi del Covid-19. Senza alcun tipo di problema, abbiamo ricevuto dati e abbiamo avviato collaborazioni con altri gruppi di tutto il mondo, in pochissimo tempo: Iran, Italia, Cina, Stati Uniti, ricercatori anche di nazioni tradizionalmente poco inclini a collaborare tra loro hanno condiviso informazioni e risultati, senza alcun ostacolo. Questo è un modo di utilizzare i moderni strumenti di comunicazione che, forse, può essere di pubblica utilità. I like, le fake news, Fedez che discute con Bruno Vespa di politiche nucleari, sono divertenti. Come lo sono le chiacchiere da bar. E vanno trattati come tali.

*Francesco Ria è Senior Research Associate,  presso Duke University Health System

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