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Con "Medici Senza Frontiere" in zona di guerra: tra i civili e Boko Haram

Adiam Woldemicael è italiana, di origine eritrea e di residenza pugliese. Appena rientrata dalla Nigeria, è stata ospite a Lecce dove tornerà venerdì. La scelta, le difficoltà, le paure, la voglia di ripartire

LECCE – Adiam Woldemicael è nata in Eritrea ma vive in Italia da quando ha cinque anni. Ha studiato Medicina all’Università di Bari ed è divenuta chirurgo pediatra entrando poi a far parte di Medici Senza Frontiere che dal 1971 opera negli scenari mondiali più complicati (nel 1999 l’organizzazione internazionale non governativa ha vinto il Premio Nobel). Attualmente Msf è impegnata in oltre 70 paesi.

Adiam è stata a Lecce giovedì, nell’ambito del progetto di sensibilizzazione #raccontiumani. In una fase in cui le ong sono finite nel mirino della narrazione aggressiva intorno al fenomeno dei flussi migratori, il medico italiano dà il suo contributo presentando l’attività di Msf e raccontando il proprio lavoro sul campo. Ci è sembrato dunque doveroso ascoltare la sua testimonianza presso il centro d’interazione culturale Dunya di Lecce, di cui diamo conto in questa intervista. Ad accoglierla gli organizzatori di Arci Lecce, il sindaco Carlo Salvemini, l'assessora ai Diritti civili, Welfare, Volontariato e Accoglienza e Ubaldo Villani Lubelli dell'Università del Salento.

Quando eri piccola la tua famiglia è fuggita dall’Eritrea e ti sei ritrovata in Italia. Quanto la tua biografia ha influito sulla scelta di svolgere il tuo lavoro in contesti così difficili?

“Immagino molto, anche se altri colleghi con una vicenda simile non hanno seguito la stessa parabola: per me ha un valore morale, quello di tornare da dove sono venuta e aiutare le persone a vivere in condizioni migliori”.

Adiam, che ha al suo attivo con altre ong esperienze in Sierra Leone e Uganda è stata destinata al campo stabile di Pulka, nello stato di Borno, in Nigeria. Dal 2009 la violenza dei gruppi di Boko Haram ha creato una situazione di fortissima instabilità nella regione, con un vero e proprio conflitto a partire dal 2013 che ha prodotto circa due milioni di sfollati soggetti a malnutrizione, malaria, Hiv, tubercolosi oltre che a profondi traumi psicologici e tassi di mortalità materna e infantile molto elevati.

Qual è stata la prima impressione una volta arrivata a destinazione, nello stato di Borno?

“Più mi spostavo dall’area della capitale Maiduguri a quella rurale, più avvertivo la sensazione di avvicinarmi progressivamente alla realtà. È una cosa difficile da descrivere, mi chiedevo dove fossi finita. Basti pensare che tutti gli spostamenti da e per l’enclave di Pulka nella quale siamo operativi avviene via elicottero, non essendoci condizioni minime di sicurezza per altri tipi di spostamenti”.

Mi racconti il caso più complesso che hai dovuto affrontare?

“Un giorno abbiamo ricevuto, in una sola volta, sedici militari con ferite da arma da fuoco dopo un attacco dei gruppi di Boko Haram. Un caso presentava lesioni vascolari, multiple perforazioni intestinali, era insomma in condizioni particolarmente critiche. Poi in un paio di circostanze abbiamo curate delle donne arrivate con la rottura dell’utero per complicazioni della gravidanza”.

Ci sono stati dei momenti in cui hai avuto davvero paura?

“Molto spesso i gruppi armati cercavano di penetrare nella zona difesa dall’esercito che ha creato una sorta di perimetro attorno a Pulka e ai campi che accolgono circa 30mila profughi. Una volta in cui sono riusciti a superare le linee è scattato lo stato di allerta e ci siamo rinchiusi nelle safe room. Si tratta di camere blindate dove trovano posto non solo gli operatori internazionali, ma anche i dipendenti locali del progetto e i pazienti. In quel momento realizzi che puoi essere in pericolo di vita, anche se sai che ci sono dei piani di evacuazione che, tuttavia, non è facile attuare”.

Questa paura ti ha indotto a dubitare delle tue scelte?

“Assolutamente no, perché questa che svolgiamo è una missione. In quei momenti ti chiedi cosa ti potrà accadere, ma anche davanti allo scenario peggiore sai che ne è valsa la pena. Io credo, però, che il pericolo sia ovunque: penso a quello che è accaduto ad Halle, in Germania, con il recente attentato antisemita”.

Avresti potuto svolgere il tuo lavoro di chirurgo pediatrico in un contesto più sicuro, comodo e remunerativo. Ci pensi mai?

“Sono convinta che i diritti umani, e quello alla salute in primis, siano più preziosi dei vantaggi di una carriera. Si parla di vite umane e non mi riferisco necessariamente a casi gravissimi: anche soltanto per una broncopolmonite ciascuno ha diritto a un medico, a una terapia. Io ho conosciuto centinaia di persone che avevano perso tutto, anche la dignità di ricevere delle cure. Pulka è piena di bambini che, come gli altri in tutto il mondo, vogliono giocare, ti sorridono ed è come se ti chiedessero di esserci. Sapere di essere l’unico medico che in quel momento può fornire assistenza e cura è l’unica motivazione che mi serve”.

Un pilastro della vostra attività è la neutralità. Un momento stai medicando un civile, poco dopo il combattente che lo ha messo in fuga e costretto alla malnutrizione e alle malattie e dopo ancora il militare dell’esercito regolare. Come si fa?

“Si lavora secondo l’etica medica. Oltre ad aver trattato molti militari dell’esercito regolare, non sono mancati giovani membri dei gruppi armanti, in larga parte collaborazionisti che per lo più si ritrovano costretti a entrare nelle milizie, dopo minacce, saccheggi, spargimenti di sangue. Io non gliene faccio una colpa anche perché, una volta da noi, è come se già si fossero liberati dalla dipendenza dal gruppo armato”.

Cosa hai provato nel momento in cui hai fatto i bagagli e sei tornata a casa?

“A Pulka ho lasciato il cuore, per il mio lavoro, per il team con cui ho operato, per i piccoli traguardi raggiunti ogni giorno. Mi piacerebbe ripartire il prima possibile, ma è corretto trascorrere due tre mesi a casa”.

Adiam, che sabato è stata ad Alessano ospite della Libreria Idrusa, sarà ancora a Lecce venerdì prossimo, alle 18.30 presso l’Auditorium della chiesa di San Giovanni Battista per un incontro organizzato da Cantieri Innovativi Lef 167 e da Le Ali di Pandora.

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