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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca Santa Cesarea Terme

Carmelo Bene, il “genio” e le contraddizioni della memoria posticcia

Nel decimo anniversario della sua scomparsa, a giorni le istituzioni si preparano a ricordare la figura dell'artista, mentre nel disinteresse totale si è consumata nei giorni scorsi la vendita all'asta della casa paterna

SANTA CESAREA TERME - Deve essere un destino strano quello di chi viene riconosciuto “genio” in maniera postuma. E, tuttavia, in matematica coerenza rispetto a chi sul palco prestava orecchio ai tanti sé, proprio quando, in gergo teatrale, “il forno era pieno” e le platee gli apparivano “vuote”. Perché lui “c’è stato” nel paradosso della sua “assenza”, esattamente come oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa.

Carmelo Bene continua ad essere uno dei figli più preziosi di questa terra, qualche volta un po’ schiava delle visioni da cartolina e degli slogan da “sole, mare, vento”. Una miccia prorompente, la mina vagante fuori da ogni schema e al di sopra delle righe, che ancora oggi spiazzerebbe le menti catatoniche dinanzi ai telepredicatori travestiti da filosofi.

Personalità molteplice e controversa, nel pubblico come nel privato. E che inonderebbe di “contenuti” il dibattito odierno, così privo di energia ed assorbito dalle nomination da reality o dalle “larghe intese” sugli slip della soubrette del momento. Sarebbe il “porno” che supera “l’osceno” o quell’impeto verbale e concettuale necessario a ridestare il generale torpore, così come nella sua decostruzione storica del teatro, reinventato e fatto proprio, che disorienta, spaventa, sconvolge e, allo stesso tempo, affascina.

Il paradosso della memoria è, invece, il tiro mancino peggiore che lo stesso Bene poteva subire, nel decimo anniversario della sua morte. Perché è quei che trova spazio la contraddizione silenziosa della vendita all’asta della sua casa paterna, a Santa Cesarea Terme. L’immobile, che ha accolto i primi passi della sua maturazione artistica e ha visto partorire la sceneggiatura di quel capolavoro filmico di “Nostra Signora dei Turchi”, ha com’è ormai noto, dei nuovi proprietari.

La risonanza che ha avuto la notizia non stride quanto la passività, con cui si è consumata questa alienazione del bene, messa in campo da tutte quelle istituzioni, che, tra qualche giorno, si affretteranno a commemorare il regista. E a quella ugualmente indolente del mondo della cultura, che, al di là di un sit-in, non è riuscita a mettere in atto azioni concrete per riscattare l’abitazione, che, secondo il disegno tracciato dalla sorella di Bene, Maria Luisa, sarebbe dovuta divenire un museo materiale della memoria. D’accordo, c’è la crisi, le casse degli enti sono alla frutta, i tagli centrali tengono per la gola i bilanci. Però, poi, le risorse per iniziative di valore culturale più o meno discutibile si trovano.

È la solita idea mortificante della cultura come “consumo” del tutto e subito: ricorrono i dieci anni dalla morte di Bene? Allora, si allestisce un bel programma di eventi posticci e dopo, si può tornare ad ignorarne la storia, come se mai accaduta. La sua casa ad Otranto è spesso meta di curiosi, che cercano di cogliere qualcosa in più di questa figura, anche solo osservando esternamente i luoghi vissuti. Eppure non esiste una targa, una indicazione a ricordare che lì abitava il “maestro”.

E quanto ci sarebbe poi da raccontare. Gli idruntini, che lo hanno incontrato nei suoi soggiorni prolungati in città, sono una fonte di aneddoti gustosi, che rendono parzialmente il quadro della complessità di un personaggio davvero unico, ma che meriterebbe di essere conosciuto. Come quella sera, che in un noto ristorante del centro, occupando da solo un tavolo prenotato da tredici persone, al giovane cameriere che gli faceva notare la circostanza, chiedendo di spostarsi, ordinò di apparecchiare ugualmente per tredici, senza muoversi dal posto. O di quando voleva tenere dalla sua terrazza un discorso al mare e all’Oriente.

Estro e sregolatezza, che hanno reso nobile questa terra, calcando i palchi internazionali e lasciando il segno di un’opera complessa quanto originale, esattamente come il suo artefice. Così plurimo da non potersi definire. Il suo “ricordo” da tramandare, purtroppo, subisce l’ennesima ferita della dimenticanza. “Io sono per il grande teatro – spiegava - che non è comprensibile. Esattamente come la vita”.  E forse, a conti fatti, come la stessa idea di memoria.

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