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Cronaca

Oltre la condanna: la "passione sportiva rovinata" e il comune senso di vergogna

Nella parte conclusiva delle motivazioni della sentenza relativa alla frode sportiva nel derby Bari-Lecce del maggio 2011, il giudice riporta anche le dichiarazioni dei tifosi di entrambe le squadre, ai quali è stato riconosciuto un danno non patrimoniale di 400 euro

LECCE – “Per me era l’apoteosi, l’apoteosi di essersi salvati a Bari… è diventata la tragedia, la vergogna della vergogna”. Sono le parole di un sostenitore del Lecce e si riferiscono al famigerato derby del maggio del 2011, vinto dalla squadra giallorossa che così ottenne i tre punti necessari a conseguire la permanenza nella massima serie calcistica, contro un avversario oramai retrocesso. E nelle cui fila un calciatore, Andrea Masiello, tentò di convincere tre compagni a giocare per perdere.

Tra le ultime pagine delle motivazioni della sentenza di condanna nel procedimento penale nei confronti Pierandrea Semeraro, Carlo Quarta e Marcello Di Lorenzo, accusati di frode sportiva, colpisce la citazione di alcune dichiarazioni rese in fase dibattimentale da alcuni dei tifosi, del Lecce e del Bari, che si sono costituiti come parte civile. Per una volta accomunati da uno stato d’animo, la rabbia.

Dice un supporter biancorosso: “Il derby non è mai una partita come tutte le altre… in più la squadra del Bari aveva svolto un campionato, diciamo pure, disastroso… praticamente l’unica soddisfazione che potevamo avere come tifosi… era di battere il Lecce nel derby… tutti speravamo in questo colpo di coda del Bari, che all’ultima partita facesse una partita con il cuore… , che portasse a casa una vittoria…”.

Bastano due esempi per rappresentare lo sgomento di due intere tifoserie che si odiano e che, per passione e anche capacità di mobilitazione, non hanno mai temuto il confronto con quelle delle più tradizionali piazze dell’Italia pallonara. E al di là della rilevanza penale della vicenda, che per quanto riguarda il Lecce ha implicato anche la mano pesante della giustizia sportiva, emerge in tutta la sua portata innovativa per la giurisprudenza anche la questione del risarcimento del danno non patrimoniale, riconosciuto in 400 euro per ciascun tifoso rappresentato nel procedimento..

Il giudice assume come propria, nelle motivazioni, la locuzione “danno da passione sportiva rovinata” che, voltando lo sguardo alle peggiori nefandezze del mondo, potrebbe sembrare anche una forzatura. Ma così non è, come sa bene chi imposta una parte della propria vita sui precetti di una fede sportiva. Ai tifosi del Lecce - molti dei quali assistiti dall’avvocato Giuseppe Milli, ma anche da Francesco Calabro e altri – è stato riconosciuto il “pregiudizio consistente oltre che nel patimento e nella sofferenza transeunte, nell’aver in qualche modo smarrito i propri valori sportivi e mutato in senso peggiorativo le proprie abitudini di vita (delusione e perdita di fiducia nella correttezza delle partite di calcio e nella lealtà dei calciatori; perdita di interesse e desiderio di coltivare il proprio hobby di seguire la propria squadra del cuore dal vivo, anche in trasferta).

Di questa “pazza fede”, come l’ha definita lo scrittore inglese Tim Parks in un libro dedicato all’Hellas Verona, ne erano perfettamente a conoscenza i tesserati ascoltati nelle udienze del processo. Dice lo stesso Masiello, deus ex machina dell’operazione truffaldina: “Su una partita come Bari-Lecce, sfido chiunque a dormire la notte! Il derby per la gente è vita” e ancora, con riferimento ad un allenamento prima della fatidica gara: “Vennero trecento tifosi al campo per sostenere la squadra… Almeno l’ultima soddisfazione dell’annata disastrosa che avevamo fatto, di impegnarsi al massimo per poter ottenere un risultato positivo”.  

Insomma, la lettura delle 66 pagine depositate dal giudice Valeria Spagnoletti, lascia atterriti per la noncuranza con la quale gli interessi materiali sembrano calpestare i valori sportivi e la passione che democraticamente accomuna persone che per tutti gli altri aspetti della loro quotidianità sono distanti anni luce: per credo politico, per condizione sociale, per stile di vita.

Ma ancora più male, perché sovrappone il volto del carnefice a quello della vittima, in una sorta di nemesi al contrario, è quanto riferito nell’interrogatorio del 27 gennaio dal calciatore Marco Rossi, tesserato con il Bari all’epoca dei fatti contestati, quando aveva solo 24 anni. Dalle sue parole emerge che i capi ultras della tifoseria biancorossa sarebbero andati da Masiello e dal compagno di squadra Gillet, portiere, perché si facessero portavoce presso tutti gli altri della richiesta di perdere due partite, con la Sampdoria, in casa, e con il Cesena, in trasferta “perché loro avevano scommesso tanti soldi, in cambio di queste due sconfitte, loro avrebbero detto che fino a fine dell’anno noi avremmo fatto una vita tranquilla”. Del resto, del potere di condizionamento di alcuni settori "deviati" del tifo più radicale, sono piene le cronache, e non solo recenti. Ma questo episodio specifico introduce, con tutti i se che si devono accordare a dichiarazioni prive di riscontri oggettivi, l'elemento della scommessa sportiva come collante di appettiti, da più parte nutriti, che nulla hanno a che fare con il sudore in campo e con la palpitazione sugli spalti e come architrave di un sistema in cui quella che era un'eccezione potrebbe un giorno scoprirsi essere stato qualcosa di più.

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