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Martedì, 16 Aprile 2024
Cronaca Corigliano d'Otranto

Figlio con danno psicomotorio, non ci fu colpa medica. "Andremo in Cassazione"

Confermata in Appello dalla seconda sezione civile la sentenza che scagiona un ginecologo, oggi in pensione. Le disfunzioni per encefalite prenatale da citomegalovirus. Il legale non ci sta: "Violato il principio d'informazione"

LECCE - La seconda sezione civile della Corte d’Appello di Lecce ha confermato la non responsabilità del ginecologo, verso la sua ex gestante, su un caso di “encefalite prenatale da citomegalovirus” contratto dal figlio di una donna. Il caso vede al centro un medico, oggi in pensione, Massimo Arachi, di Corigliano d’Otranto, già in forza presso la divisione di ostetricia dell’ospedale di Galatina che, nel 1998,  fu chiamato in causa da una paziente, una donna di 44 anni, anche lei di Corigliano.

Di fronte al tribunale di Lecce era stata avanzata una richiesta di risarcimento di circa 2 milioni di euro, fondata sul fatto, secondo quanto ravvisato nella denuncia, che, “nonostante gli esiti degli accertamenti clinici nonché degli esami, il suo ginecologo aveva omesso di rilevarle la presenza di processi patologici che avrebbero potuto determinarla ad interrompere la gravidanza”.

Il 13 novembre del 1996 la donna diede alla luce un bimbo, oggi 16enne, affetto da un “danno neuro motorio di entità tale - scrisse il consulente del tribunale, Alberto Tortorella – da realizzare un danno biologico permanente totale e con necessità ad assistenza continua, anche per l’espletamento dei quotidiani atti della vita”.

Appena nato, il bimbo sembrava sano. Fu nel tempo successivo che si scoprì il ritardo psicomotorio. Vani risultarono gli interventi di terapia fisica riabilitativa e, dopo alcune indagini morfologiche che avevano dimostrato dilatazione dei ventricoli laterali, seguì un ricovero presso il policlinico di Modena. Qui, i sanitari formularono la diagnosi di “encefalite prenatale da citomegalovirus”. Una diagnosi confermata dall’istituto neurologico “Casimiro Mondino” di Pavia.

Fu a quel punto che la madre si rivolse al tribunale, ritenendo che fosse stato violato il principio della comunicazione fra il sanitario e la gestante, secondo le linee guida del ministero della Salute e dal codice deontologico medico.

Di fronte ai giudici, la madre lamentò che il suo ginecologo, dopo il referto rilasciatogli il 10 aprile 1996 dal laboratorio dell’ex Asl Le/2 di Maglie, da cui si sarebbe potuto accertare il contagio da citomegalovirus, avrebbe dovuto informarla che vi erano esami, ancorché con rischi abortivi (come l’amniocentesi) per accertare se l’infezione si era trasmessa al feto, con conseguente rischio di malformazioni.

Solo così, disse la donna, le sarebbe stato garantito il suo diritto alla procreazione cosciente e responsabile, previsto dalla legge 194 del 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza.

In primo grado, fu però rigettata la richiesta risarcitoria avanzata dalla donna nei confronti del sanitario. Il giudice ritenne di accogliere le conclusioni del Ctu, Tortorella, secondo cui l’ostetrico non aveva alcun dovere di disporre l’ulteriore esecuzione degli esami sierologici e, tanto meno, di effettuare una diagnosi prenatale di infezione da citomegalovirus in tempo utile per proporre alla paziente l’eventualità dell’interruzione di gravidanza.

L’avvocato Sergio Santese, che difende l’ex paziente, impugnò quella sentenza davanti alla Corte d’appello di Lecce, ritenendo che il giudice avesse erroneamente sposato l’approccio metodologico del Ctu.

“Le considerazioni medico legali – sostenne il legale - ricalcano chiaramente i criteri dell’accertamento del rapporto di causalità nel reato colposo omissivo improprio in tema di colpa professionale medica, mentre il tribunale era chiamato a valutare la responsabilità civile del sanitario secondo il criterio della probabilità relativa nel senso che il pregresso contagio della gestione al virus avrebbe dovuto consigliare al medico di ritenere che fosse più probabile che vi potesse essere una reinfezione al virus e disporre dunque la ripetizione dei relativi esami sierologici. Nei motivi d’appello – prosegue Santese - fu anche censurata la sentenza, per non aver ravvisato il tribunale profili di colpa del sanitario, sotto l’aspetto della violazione della disciplina del consenso informato della paziente”.

“E’ il tema della responsabilità medica e del diritto all’informazione – proesegue Santese - che avevamo voluto portare al centro della discussione avanti alla Corte territoriale. Mentre dalla lettura della sentenza d’appello non abbiamo ricevuto alcuna risposta sull’argomento sollevato. Ripeto, alcuna parola di motivazione”.

“Si consideri, invece – declama il legale - che la Corte di cassazione nel 2006, per la prima volta, aveva giudicato in termini assai rigorosi le conseguenze dell’inadempimento del medico all’obbligo di informare il paziente, in modo adeguato, circa i possibili effetti collaterali della cura”.

“La nuova fonte di responsabilità medica – stigmatizza Santese - viene quindi individuata nell’obbligo di informazione gravante sul medico, con la conseguenza che, in caso di inadempimento, il medico è tenuto al risarcimento dei danni subiti dal paziente a causa dell’esito non favorevole o peggiorativo del trattamento a prescindere dalla valutazione del comportamento tenuto dal sanitario nel trattamento terapeutico”.

“Il consenso – conclude l’avvocato Santese - deve essere frutto di un rapporto reale e non solo apparente tra medico e paziente. Per questo porteremo il drammatico caso in Corte di cassazione”.

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