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Cronaca

Prodigio in carcere: la redenzione del pubblico con i detenuti di "Io ci provo"

In corso fino a sabato lo spettacolo, liberamente ispirato a Pasolini, preparato dai partecipanti al laboratorio della compagnia di Paola Leone. Il risultato è fuori dall'ordinario

LECCE - Uno, due, tre, quattro, cinque e ancora, ancora e poi ancora. Una massa di muscoli tempestata di tatuaggi trasferisce contro il muro una potenza controllata. Colpo dopo colpo, il rumore secco delle nocche che incontrano la materia fa più male a chi guarda che all’uomo che colpisce. 

E’ martedì pomeriggio: in un edificio del carcere di Borgo San Nicola, un colosso di almeno un metro e 90 saltella sul pianerottolo di una scala, accompagnando il suo sforzo con parole di incitamento fino all’affondo decisivo, più forte degli altri, seguito dall’urlo della vittoria che scioglie anche la tensione nervosa del pubblico che assiste alla scena.

La compagnia “Io ci provo”, guidata da Paola Leone, dopo quattro anni di ostinato lavoro con i detenuti, ha tirato fuori dal cilindro non solo uno spettacolo teatrale, ma una magia, intensa e commovente al tempo stesso, spiazzante, angosciante.

Tu entri nell’istituto penitenziario consapevole delle tue convinzioni sulla funzione rieducativa della pena, sulla necessità di migliorare le condizioni di vita dei reclusi, sull’opportunità di assolvere a un dovere civico sostenendo un evento un po’ particolare, ma ne esci con la sensazione di aver ricevuto il dono, inatteso e forse immeritato, di una verità più profonda e complessa che invece di appagare il tuo buonismo di stampo progressista, lo sconquassa, lo sventra e te lo sbatte in faccia.

Col passare dei minuti, quando il carcere lo hai lasciato fisicamente ma non psicologicamente, capisci che aver varcato la soglia d’ingresso del penitenziario e poi superato tutti i cancelli che si aprono e si chiudono alle tue spalle abbia rappresentato il percorso più breve che si potesse fare tra l’io e la libertà, tra la dimensione individuale che scorre nella routine di una prigionia senza sbarre, quella di tutti i giorni, e un’autentica emancipazione dell’animo umano che si invera, per apparente paradosso, negli spazi angusti e senza orizzonti di una casa circondariale.

Si chiama “PPP. Passione Prigione Pietà e/o Porca Puttana Pasolini” e va in scena dal 6 all’11 giugno per due volte al giorno. La platea è costituita da una ventina di persone per volta, non tanto per ragioni di sicurezza quanto perché l’omaggio a Pasolini è allestito negli spazi di una sezione: celle, corridoi, cortili, che diventano stazioni di una sorta di via crucis che non segue un ordine logico o cronologico ma costituisce, una volta assemblata senza necessariamente uno schema preciso, una chiave di lettura, un laboratorio.

All’interno si scandagliano, seguendo una traccia essenzialmente autobiografica, la forza dei sentimenti e la violenza silenziosa di meccanismi sociali che trasformano ragazzi poco più che adolescenti in criminali, ma anche cittadini liberi in inconsapevoli replicanti di modelli più o meno convenzionali.

Ppp è uno spettacolo con una cifra artistica e tecnica notevole, frutto di un lavoro appassionato e qualificato: i monologhi dei detenuti non hanno sbavature, sono audaci, non disdegnano l’ironia ma ti tengono sempre in apprensione, ti prendono e ti sbattono a loro piacimento contro il muro della cella.

Il livello estetico di alcune scene lascia a bocca aperta, sembra che ci siano suggestioni degne di Paolo Sorrentino: è il caso di un attore che balla alla luce stroboscopica, esibendo il suo fisico scolpito al ritmo di musica tecno (da lui stesso riprodotta semplicemente con la bocca) oppure dei petali che dalle finestre delle celle le detenute rovesciano nel cortile chiuso sul pubblico meravigliato.

Dal momento che capolavoro è termine abusato, lasciatemi usare quello di meraviglia. C’è una forza travolgente in Ppp e non c’è alcun intento didascalico. Assistervi è stato un privilegio. Paola Leone, per la prima volta da quando ha iniziato la sua attività nel carcere, ha voluto che lo spettacolo fosse a pagamento per capire se la comunità leccese vuole sostenere operazioni socio-culturali di questo tipo. Io credo che lei e tutti i suoi collaboratori siano un patrimonio di questa città: il valore morale e pubblico del loro lavoro non può essere né taciuto né ignorato.

Un plauso, e non di rito, va all’amministrazione penitenziaria che ha consentito che tutto questo fosse possibile. Il carcere di Lecce negli ultimi anni ha registrato dei passi in avanti, innanzitutto con la riduzione del sovraffollamento. Ancora molto, però, resta da fare, dal punto di vista delle attività di formazione e non può essere un singolo laboratorio teatrale a risolvere tutti i problemi. Tuttavia la strada, ostinata, aperta da “Io ci provo” è quella giusta: è più semplicemente un fatto di civiltà, e non a caso anche un dettato della Costituzione italiana (articolo 27). Sapessimo “agirla” e non solo evocarla, quella carta, faremmo innanzitutto un favore a noi stessi.

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