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Venerdì, 29 Marzo 2024
Cronaca

Inferno a orologeria: stagionali tra i detriti per costruire un altro tetto

La demolizione dell'ex falegnameria, oramai fatiscente, lascia spazio a soluzioni ancora più di fortuna in attesa di un campo che comunque non sarà sufficiente per tutti i lavoratori

NARDO’ – La pala meccanica è ancora in azione sotto gli occhi delle forze dell’ordine e del sindaco mentre alcuni migranti – come dopo un bombardamento o un terremoto – vagano tra i detriti alla ricerca di qualcosa di utile, travi di legno e laterizi soprattutto, per costruire in fretta e furia dei rifugi di fortuna.

Questa mattina è stata eseguita l’ordinanza di demolizione della ex falegnameria – prossima alla zona industriale di Nardò - disposta dal sindaco, Marcello Risi, che ha poi commentato con sollievo: “Abbiamo evitato una strage”. Sulla struttura, pericolante e fatiscente, incombeva da tempo il rischio di cedimenti, tanto che già nel luglio dello scorso anno era stato disposto lo sgombero.

Fino a questa notte vi hanno trovato dimora circa trenta persone, ma le baracche allestite tutto intorno, e altre che insistono in questo immenso feudo agricolo dove il tempo pare essersi fermato diversi decenni addietro, fanno presumere la presenza di oltre un centinaio di lavoratori giunti – nella maggior parte dei casi tornati - nel Salento per quatto soldi e condizioni lavorative durissime.

La chiusura dei ghetti di Rignano Garganico e Andria ha contribuito all'arrivo anticipato nella provincia di Lecce per la raccolta delle angurie prima e dei pomodori poi. I tentacoli di quel mostro che incrocia la domanda e l’offerta secondo l’unica legge vigente, quella del profitto, e che evidentemente ha una dimensione molto più che locale, sono in azione e Nardò è uno degli snodi di un sistema che, a seconda delle stagioni, muove migliaia di persone su e giù per lo Stivale.

Nel pieno dell’estate si stima che i braccianti possano essere anche cinquecento, se non di più, e dunque non potranno essere tutti accolti nel campo di accoglienza per 100, 150 persone che il Comune proverà a mettere in piedi già dalla prossima settimana: sollecitazioni in questo senso sono state fatte sia alla Regione Puglia che alla prefettura di Lecce.

L’ex falegnameria è diventata il punto principale di convergenza per i lavoratori stagionali dopo la chiusura di Masseria Boncuri, sulla quale nel 2011 si accesero le luci della ribalta nazionale grazie al primo coraggioso sciopero dei braccianti guidati da Yvan Sagnet.

Il tam tam mediatico di allora – lo si capisce oggi chiaramente – non è bastato a tradurre in fatti concreti gli impegni che pure sono stati assunti dai vari livelli istituzionali sia per quanto riguarda l’accoglienza in sé che la regolamentazione delle condizioni di lavoro. I due aspetti, intersecandosi, definiscono una questione che non è solo di irregolarità ma di violazione di diritti umani: i migranti dormono quasi tutti su giacigli di fortuna, pagano ai caporali l’acqua e pure il carburante necessario per portarli al lavoro.

La sensazione rispetto a questo inferno a orologeria – tutti sanno che arriverà, ma ogni volta sembra la prima – è che ci sia un sostanziale arretramento nel contrasto al caporalato (attività di denuncia e di ispezione) e nella predisposizione di strumenti legislativi adeguati: la prima normativa regionale risale al 2006 e allora fu accolta con grandi speranze; dieci anni dopo un disegno di legge è in discussione da mesi al Senato (commissione Agricoltura), ma dal punto di vista del lavoratore è come se non fosse trascorso che un giorno.

I caporali invece non perdono nemmeno un secondo e la loro azione pervasiva – che non è però che un passaggio di una filiera più estesa – sembra non temere indagini, operazioni di polizia e processi. Già l’inchiesta sfociata nel processo “Sabr” e condotta dai carabinieri del reparto operativo speciale dal 2009 al 2011 delineò i contorni fondamentali di una struttura transnazionale dedita al favoreggiamento dell’immigrazione per il reclutamento di manodopera a basso costo nel settore agricolo.

Eppure, a tornare nei campi neretini diversi anni dopo sembra non essere cambiato nulla. Gli unici a non apparire rassegnati sono gli esponenti dell'associazione Diritti a Sud che si danno da fare per questi ragazzi, lontano dai riflettori, lamentando con insistenza la mancanza di alternative valide da parte delle istituzioni e di chi quella manodopera la impiega massicciamente: in fondo è come se centinaia di operai fossero costretti a dormire davanti alla fabbrica in cui lavorano.

Per certi versi, anzi, il quadro sembra addirittura peggiorato. Siamo nel periodo della piantumazione del pomodoro, una lavoro per il quale sono richieste soprattutto le donne. In parte vengono dall’Europa dell’est, ma non mancano quelle del posto: la loro paga è comunque inferiore a quella degli uomini. La presenza non trascurabile di lavoratori italiani, espulsi da altri cicli produttivi, è un elemento di ulteriore riflessione che va oltre l'analisi tradizionale della condizioni dei braccianti meridionali.

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