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Cronaca Collepasso

Anziano morì carbonizzato in casa, condannato a trent’anni il figlio

Emesso il verdetto nei riguardi di Vittorio Leo, l’agente immobiliare che il 29 maggio del 2019 si rese responsabile della morte del padre nella sua abitazione a Collepasso

COLLEPASSO - E’ stato condannato a trent’anni di reclusione Vittorio Leo, l’agente immobiliare 49enne di Collepasso, per la morte del padre Antonio, di 89 anni, trovato carbonizzato nel bagno della sua abitazione, in via Don Luigi Sturzo, il 29 maggio del 2019.

Finito sotto processo per omicidio preterintenzionale, alla fine l’imputato è stato riconosciuto responsabile di quello volontario, il reato che era stato ipotizzato all'inizio dell'inchiesta dal pubblico ministero Luigi Mastronianni, titolare del fascicolo, e poi modificato nel corso delle indagini.

presidente Baffa-3Durante il processo, però, il pm è ritornato al capo d’accusa originario, e al termine della requisitoria ha invocato 14 anni, ritenendo prevalenti le attenuanti generiche sull'aggravante del parricidio. Queste, invece, sono state considerate equivalenti dalla Corte d’Assise di Lecce, composta dal presidente Pietro Baffa (nella foto), dalla collega Francesca Mariano e dai giudici popolari, così che l'imputato ha potuto evitare l'ergastolo, ma non il massimo della pena.

La difesa, rappresentata dall’avvocato Antonio Santoro del foro di Taranto (subentrato nell’ultima udienza all’avvocato Francesca Conte) valuterà il ricorso in Appello non appena saranno depositate (entro sessanta giorni) le motivazioni della sentenza emessa in mattinata nell'aula bunker del carcere di Lecce.

La difesa: “Fu un incidente. Non volevo ucciderlo”

“Si è trattato di un incidente. Non volevo ucciderlo. Ma quando il corpo di mio padre ha preso fuoco, sono rimasto immobilizzato dal panico”, si difese così, il 49enne, (nella foto a sinistra) dopo il suo arresto, spiegando che il genitore si trovava ai fornelli per preparare il pranzo, quando in reazione a una sua offesa, l’ennesima, gli lanciò addosso l’alcol contenuto in una bottiglietta utilizzata per medicarsi una ferita alla mano.

Le fiamme venute a contatto con la sostanza avrebbero così raggiunto la vittima che si dimenò da una stanza all’altra, raggiungendo il bagno nel tentativo di spegnerle. Il figlio, invece, preso dal panico – così si giustificò – assistette alla scena senza muovere un dito.

Il giudice per le indagini preliminari (gip) Giovanni Gallo che interrogò Leo, valutò i suoi comportamenti - dal mancato aiuto vittorio-leo-4-2-2a quelli avuti subito dopo il decesso del genitore, in particolare l’aver pulito meticolosamente casa, mangiato un piatto di pasta e riposato sul divano, prima di allertare i soccorsi – chiara espressione di una volontà omicida.

Sul punto, il gip scrisse nell’ordinanza di convalida del fermo che la volontà “seppur inizialmente potesse essere caratterizzata da un dolo eventuale (al momento del getto dell’alcol sulle parti vitali mentre il padre era vicino ai fornelli accesi, con accettazione del rischio che morisse), successivamente deve essere sicuramente considerata significativa di una volontà diretta (con dolo intenzionale) a cagionare, con assoluta pervicacia e in assenza di qualsivoglia sentimento di compassione, il decesso della vittima”.

Ad avere un peso nella decisione del gip furono anche le dichiarazioni rese da Leo ai carabinieri appena giunti nell’abitazione di via don Luigi Sturzo, a Collepasso, in seguito alla sua chiamata (partita cinque ore dopo i fatti): “Comandante salite in casa, mio padre è morto, venite a vedere cosa ho fatto… non ce la facevo più a sentire le lamentele di mio padre, oggi non ce l’ho fatta più, prima abbiamo litigato, poi ho preso una bottiglia dell’alcol e poi ho acceso con la fiamma, e poi non mi ricordo più… non so nemmeno io perché l’ho fatto, è stato un momento e tutto è finito”.

Il movente: l’odio maturato nel tempo

“Togliti di mezzo”, “vattene”, “sparisci” sono queste le ultime parole che la vittima avrebbe rivolto al figlio, quella mattina del 29 maggio di un anno fa, prima di diventare una torcia umana.

A riferirlo fu lo stesso Leo, durante le indagini, raccontò di aver lanciato l’alcol, in segno di stizza, dopo essere stato offeso per l’ennesima volta, perché il padre non avrebbe perso occasione per mortificarlo e schiacciare la sua personalità.

L’anziano, che aveva dedicato un’intera vita all’insegnamento, si sarebbe messo in cattedra anche in casa, bacchettandolo per ogni scelta: mai una parola d’amore o di incoraggiamento, ma di disprezzo per il fatto di aver abbandonato gli studi di ingegneria per diventare un agente immobiliare, e di non aver messo su famiglia.

Di questi rapporti familiari burrascosi, peggiorati dopo la scomparsa della madre, Leo ne ha parlato anche oggi in aula, davanti alla Corte che alla fine, ha decretato la sua condanna a trent'anni di reclusione.

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