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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

Omicidio Cera, confermata in appello la condanna a 27 anni per la moglie

I giudici della Corte d'assise d'appello di Lecce hanno condannato Enza Basile, accogliendo la tesi della pubblica accusa. La sentenza è arrivata al termine di alcune ore di camera di consiglio. Lei ha sempre parlato di suicidio

 

LECCE – Confermata in appello la condanna a 27 anni di reclusione per Enza Basile, la donna accusata di aver ucciso il marito, Luigi Cera, con un colpo sparato alla testa il 15 giugno del 2004. I giudici della Corte d’assise d’appello di Lecce, hanno condannato la donna, accogliendo la tesi della pubblica accusa. La sentenza è arrivata al termine di alcune ore di camera di consiglio, dopo la discussione dell’avvocato difensore della donna, Silvio Caroli e il legale di parte civile, Roberto Bray.

Per i giudici fu dunque omicidio e non suicidio come, seppur con versioni spesso contrastanti e al limite dell’inverosimile, la Basile ha sempre sostenuto. L’imputata ha sempre sostenuto che era intenta a preparare il caffè, al piano inferiore dell’appartamento in cui la coppia abitava, nel momento in cui fu esploso il colpo di pistola e di non aver udito l’esplosione. La Basile inspiegabilmente, dopo aver cercato di soccorrere il marito, avrebbe chiesto aiuto dicendo che Cera era caduto dalle scale. I primi a giungere a casa Cera furono i sanitari del 118, che si accorsero immediatamente che l’uomo presentava una ferita d’arma da fuoco. I medici notarono subito la pistola, che si trovava in una posizione incompatibile con un suicidio. In quei frangenti, prima dell’arrivo dei carabinieri, la 50enne di Taurisano eseguì poi tutta una serie di “attività insolite che alterarono lo stato dei luoghi e la scena del delitto”.

Fu in questo frangente che l’arma del delitto, una pistola calibro 22, svanì nel nulla. Solo molte ore dopo, dopo una lunga e minuziosa perquisizione operata dai militari dell’Arma, si scoprì che la pistola era stata riposta in cassaforte dalla stessa Basile, che affermò però di non ricordare la combinazione. Fu necessario quindi sradicarla letteralmente dal muro e aprirla per mezzo di un flessibile. La donna, inoltre, non ha mai saputo spiegare la presenza di alcune escoriazioni sulle braccia compatibili, secondo l’accusa, con una possibile colluttazione avvenuta con la vittima.

Quella del suicidio, del resto, è un’ipotesi che solo l’imputata ha sostenuto, spiegando che il marito, su cui pendeva un’ordinanza di carcerazione per aver abbandonato la comunità di recupero in cui era stato ricoverato, “avrebbe preferito uccidersi piuttosto che tornare in prigione”. Eppure tutti hanno descritto Cera come una persona tranquilla e serena in quei giorni, che solo due settimane prima aveva partecipato al matrimonio di uno dei figli e che da poco aveva saputo di aver finalmente ottenuto una piccola pensione d’invalidità (comprensiva di oltre novemila euro di arretrati) chiesta nel lontano 1988. Soldi che avrebbero acceso la bramosia della moglie, una donna con problemi di tossicodipendenza e abituata a vivere sulla soglia dell’indigenza.

A rendere poco plausibile l’ipotesi del suicidio sono anche le prove scientifiche: sul corpo della vittima, infatti, il medico legale rinvenne un’impronta “a stampo” della canna della pistola, che dimostrerebbe come la stessa fosse premuta contro la tempia in posizione perpendicolare alla testa. Un dato difficile da riscontrare in un caso di suicidio. Sulle mani di Cera inoltre, giunto in stato comatoso nel reparto di Rianimazione dell’ospedale di Casarano, i carabinieri dei Ris eseguirono la prova dello Stub (utile a rinvenire eventuali tracce di polvere da sparo) che diede esito negativo. Un esame eseguito prima che il corpo fosse in qualsiasi modo pulito o “bonificato”. 

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