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Sabato, 20 Aprile 2024
Cronaca

Omicidio Padovano: l'accusa invoca l'ergastolo per il fratello e il cugino

Carcere a vita è la richiesta del pubblico ministero Elsa Valeria Mignone per Rosario Pompeo Padovano, ritenuto il mandante, e Giorgio Pianoforte, che avrebbe ingannato "Nino Bomba" invitandolo ad uscire dalla pescheria per constatare un sinistro

LECCE – La parola ergastolo è risuonata due volte nell'aula bunker della Corte d'assise di Lecce, interrompendo il brusio di amici e familiari presenti in aula. Il pubblico ministero Elsa Valeria Mignone ha chiesto il carcere a vita per due degli imputati del processo per l’omicidio del boss della Sacra corona unita Salvatore Padovano, avvenuto il 6 settembre del 2008 a Gallipoli, nei pressi della pescheria “Il Paradiso del Mare”.

Si tratta di Rosario Pompeo Padovano, fratello di Salvatore e presunto mandante dell’omicidio; e di suo cugino Giorgio Pianoforte. Ventidue anni, invece, la richiesta dell’accusa per Fabio Della Ducata; 12 anni per Massimiliano Scialpi; 9 per Cosimo Cavalera; e 3 anni per Giuseppe Barba; Carmelo Mendolia, collaboratore di giustizia, ha scelto invece il giudizio abbreviato ed è stato condannato a 14 anni di reclusione.

Le indagini sulla morte di “Nino Bomba” hanno permesso di far luce anche sull'omicidio di Carmine Greco, risalente al lontano 13 agosto 1990. Un delitto avvenuto nell’ambito della gestione del traffico di sostanze stupefacenti. Greco avrebbe “spacciato ingenti quantitativi di droga sul territorio di Gallipoli da “cane sciolto”, senza rendere conto della sua attività all’organizzazione”. Anche in questo caso Rosario Padovano sarebbe il mandante, Mendolia l'esecutore materiale.

Nella sua lunga e articolata requisitoria, l’ex sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, Elsa Valeria Mignone, ha ricostruito scenari e moventi in cui l’omicidio avrebbe avuto origine. Un delitto di mafia scaturito dai contrasti sorti tra i Padovano all’indomani della loro scarcerazione. Rosario, si legge nelle pagine degli atti, “scarcerato dal carcere di Spoleto e rientrato a Gallipoli nel settembre 2007, adottava le iniziative per assumere la direzione dell’associazione e ricostruire i rapporti con gli associati di ‘Gallipoli vecchia’ (tra cui Massimiliano Scialpi, Giuseppe Barba, Cosimo Cavalera e Fabio Della Ducata) in chiaro contrasto con la volontà del fratello Salvatore”.

Quest’ultimo, scarcerato a sua volta nel dicembre del 2006 e rientrato nella città jonica, “aveva ripreso a tenere comportamenti da capo mafia, distribuendo consigli e suggerimenti per regolare contrasti e controversie, ed aveva – prendendo le distanze proprio da quei personaggi della ‘Gallipoli vecchia’ perché ritenuti di scarso spessore criminale ed ancorati a vecchi schemi consortili – privilegiato lo storico collegamento con i monteronesi del clan Tornese, rinsaldando subito i rapporti con gli stessi”. Due linee di condotta diverse, che hanno portato inevitabilmente i fratelli a scontrarsi. Rosario, in particolare, si sarebbe sentito messo da parte, “limitato nelle sue mire egemoniche” e preoccupato “per l’attenzione delle forze di polizia al territorio gallipolino, richiamata dalla condotta spavalda e prepotente del fratello”.

Gli affari del clan Padovano gestiti da “irriducibili”

In quest’ottica, secondo la ricostruzione accusatoria, sarebbe scaturita la volontà di Rosario Padovano, in qualità di mandante, di far uccidere Salvatore, alias “Nino bomba”. Esecutore materiale, Mendolia, collaboratore di giustizia e già autoaccusatosi dell’omicidio. Della Ducata gli avrebbe fornito ospitalità a Gallipoli, presso la propria abitazione, e gli avrebbe consegnato, pochi giorni dopo l’omicidio (a Casamassima, in provincia di Bari), una parte dei 10mila euro di compenso pattuito, pari a 6770 euro. Pianoforte, cugino dei Padovano, avrebbe chiamato Salvatore fuori dalla pescheria di famiglia “dicendogli che una persona gli aveva tamponato la macchina”.  In realtà, ad attenderlo vi era Mendolia che l'avrebbe freddato con quattro colpi sparati con una pistola “Beretta modello 83 F”.

Diversa la versione fornita da Salvatore Padovano, reo confesso dell’omicidio, per cui si sarebbe trattato soltanto di “una vicenda familiare”, in cui lui è stato il mandante e Mendolia l’esecutore materiale. La sentenza è attesa per il prossimo 18 luglio, data in cui termineranno anche le arringhe difensive. Gli imputati sono assistiti dagli avvocati Paola Scialpi, Luigi ed Alberto Corvaglia, Luigi Piccinni, Gabriele Valentini, Ivana Quarta, Angelo Ninni, Francesca Conte e Marco Castelluzzo.

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