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Cronaca Parabita

Omicidio Romano: Vincenzo De Salve condannato a 30 anni

Il gup Ines Casciaro ha accolto la richiesta formulata dal pubblico ministero Giovanni De Palma, a carico del macellaio 57enne di Parabita. Ma restano ancora diversi i misteri da dirimere nella storia

LECCE - Non ha mosso un muscolo quando il giudice dell'udienza preliminare Ines Casciaro ha letto il dispositivo in cui lo ha condannato a trent'anni di carcere. Esattamente lo stesso numero di anni che durante l'udienza del 7 ottobre scorso il pubblico ministero Giovanni De Palma aveva invocato per Vincenzo De Salve, 57enne macellaio di Parabita, reo confesso dell'omicidio dell'imprenditore 61enne Giorgio Romano, avvenuto il 13 settembre del 2008. Il gup, davanti alla quale si è celebrato il rito abbreviato, non gli ha riconosciuto l'aggravante dell'aver agito con crudeltà. Ma quella della premeditazione sì. E non è poco.

Il fatto che sia stata riconosciuta la premeditazione, infatti, potrebbe avere una valenza non solo nelle vicende processuali dell'odierno imputato. Il giudice oggi ha accolto la tesi che De Salve avesse pianificato l'omicidio; ed a sostegno di questa teoria il pm De Palma aveva di recente prodotto una serie di nuove indagini, che hanno costituito un vero e proprio colpo di scena nel processo. Per i carabinieri del nucleo investigativo l'omicidio è stato pianificato "a tavolino" non solo da Vincenzo De Salve, ma anche dai suoi familiari. L'assassino avrebbe agito con la complicità dello zio Giuseppe De Salve, detto "Pippinazza", ormai deceduto, del cugino Emilio, e della zia Gemma Stefanelli.

Ad accusare il proprio fratello e la propria madre è Biagio De Salve, figlio di "Pippinazza". Ascoltato dagli inquirenti, ha riferito che il fratello Emilio gli avrebbe spontaneamente rivelato un loro coinvolgimento nel delitto. E proprio questo oggi l'avvocato dell'imputato, Elvia Belmonte, ha cercato di screditare: ha sostenuto che Biagio si fosse inventato tutto solo per vendicarsi dei suoi parenti a causa di vecchi rancori che nutriva nei loro confronti. Il legale ha anche tentato di demolire la loro asserita partecipazione sul luogo dell'omicidio. Stando a quanto Emilio avrebbe rivelato al fratello, lui stesso e "Pippinazza" avrebbero stazionato nelle vicinanze del capannone di Giorgio Romano, per avvertire del suo arrivo Vincenzo De Salve. L'avvocato Elvia Belmonte invece ha ritenuto che la distanza tra De Salve ed i suoi familiari fosse troppa perché potessero comunicare senza telefoni cellulari. Ma questa ricostruzione non ha trovato accoglimento.

Quella mattina Giorgio Romani si recò all'alba all'interno del suo capannone; De Salve era all'interno dello stabile, lo seguì e lo freddò con cinque colpi di pistola. Ad armare la mano di De Salve, il risentimento nei confronti dell'imprenditore poiché lui, attraverso le aste giudiziarie, lo avrebbe spogliato di tutti i suoi averi. Ma nelle recenti indagini dei carabinieri è anche quest'aspetto a rafforzarsi. Sarebbe emerso che tra la famiglia De Salve e Romano i rapporti non fossero per niente buoni, poiché la vittima avrebbe coinvolto Emilio in alcune vicende poco pulite. Con la sentenza di oggi si chiude dunque il primo capitolo della vicenda. Ma non è detto che a questa storia di capitoli non possano aggiungersene degli altri.

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