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Cronaca

Pericoloso e imprevedibile: l'ergastolano con il chiodo fisso del piano di fuga

Fabio Antonio Perrone di Trepuzzi, evaso in modo rocambolesco durante una visita medica in ospedale, ha già esperienze di latitanza, brevi o meno, molti anni di carcere alle spalle e probabilmente conoscenza delle falle del sistema penitenziario. Gli inquirenti provano a tracciare gli scenari. Forse è ancora in zona

LECCE – I controlli in strada di carabinieri e polizia si fanno sempre più radi. Hanno poco senso a distanza di tre giorni dalla fuga. Lasciano spazio all’attività sul campo, dove la parola di un informatore può avere più peso di mille palette alzate. Per ora, però, il silenzio. E in questo limbo carico d’attesa le notizie sull’ergastolano evaso giungono frammentarie, con il contagocce e da soppesare con misura. Anche  perché spesso smentite nello spazio di poche ore.

L’auto ritrovata a Casalabate, per esempio. Un’informazione filtrata per via istituzionali e poi dalle stesse cassata. E’ stata una parentesi nella quale si sono però addensati interrogativi, paure e speranze. La Yaris grigia non sarebbe stata rinvenuta, e questo è quanto. Finora.

Non è un comunque un azzardo pensare che nascosta da quelle parti possa davvero trovarsi ancora (o essersi trovata a passare) quell’auto rapinata a una donna dopo la sparatoria nell'ospedale "Vito Fazzi". E quindi lo stesso ricercato. Non per molto, se è furbo e se sa muoversi.

Sensazioni.

C’è chi guarda oltremare, non è un azzardo nemmeno questa teoria, ma forse nemmeno la pista giusta. Presupporrebbe una macchina organizzativa imponente per quella che, tutto sommato, non è una figura di primordine e che, anzi, con la sua fuga da film rischia di rallentare affari sporchi e traffici illeciti. Metà dei quali, a certi livelli, vanno e vengono proprio dal mare. Troppi controlli in giro, troppe attenzioni. Non quello che la malavita va cercando, a meno non si tratti di un boss e siano dovute certe accortezze.  

Per capire gli scenari, bisogna riannodare i fili del passato e ricomporre per quanto possibile la figura di Fabio Antonio Perrone da Trepuzzi, un uomo che di fughe e latitanze ne sa qualcosa. Ma che un boss non è mai stato. Così come ne sa di carcere e di funzionamento del sistema penitenziario, ma perché calato da pedina intermedia negli anni di piombo del Salento. Si può presumere, allora, che conoscesse, e bene, anche inefficienze e falle del sistema.

Perrone ha scontato una condanna a diciotto anni per associazione a delinquere di stampo mafioso, armi e droga. In un lasso di tempo così ampio, l’unica cosa che si può fare è contare i giorni e osservare il microcosmo che ruota attorno agli esigui spazi di una cella e poco più in là. E allora, se non si è persuasi del fatto che possa aver escogitato la rocambolesca fuga in ogni dettaglio secondo un piano prestabilito, si può esserlo dell’idea che nella sua lunga carriera criminale abbia pensato mille volte di prendere il largo. E rimuginato su altrettanti modi per scomparire come uno spettro.

Certo. Avere un’idea martellante e attuarla improvvisando è diverso che disporre di un piano studiato. Eppure, entrambi i concetti – che si agisca da soli o di disponga di una rete d'appoggio affidabile - hanno un punto di raccordo fondamentale: il dopo. Sì, dopo bisogna sapere dove andare, dopo. O si rischia di recitare a soggetto per sempre.    

Una mezza prova (più che altro un’avvisaglia) dell'idea di libertà coltivata da Perrone arriva da un’altra notizia filtrata oggi. Nasce da un’agenzia Ansa. A giugno, prima della condanna per l’assassinio di Fatmir Makovic, 45enne montenegrino residente nel campo “Panareo” in un bar di Trepuzzi (un mezzo massacro, cui scampò per miracolo il figlio 16enne dello straniero; movente mai chiarito) la Procura di Lecce avrebbe ricevuto una segnalazione da fonti ritenute affidabili su un possibile rischio di tentativo di fuga (condizionale d'obbligo). Perrone, spirito indomito e irrequieto. Ma se vi fosse anche lontanamente l’idea di un piano, saltò. Nel processo con rito abbreviato che sancì il suo ergastolo, il dispositivo fu imponente.   

Voci dal profondo, ma qualcosa di più, forse, di una stravagante seduta attorno al tavolo di un medium. Anche perché, in fin dei conti, il presagio s’è avverato. E Perrone non ha fatto altro che insinuarsi in una delle falle sistemiche, quella dell’accompagnamento di carcerati con uomini e mezzi inadeguati di numero. Ci ha poi messo del suo nella temerarietà. Quella di chi non ha molto da perdere, ma solo da guadagnare. Una non vita da ergastolano per omicidio e la morte non devono poi essere molto diversi per chi è condannato in ogni caso all’inferno. Specie per chi ha già assaporato anni di carcere. E allora ci ha provato. Ha estratto la pistola di un agente di polizia penitenziaria pochi attimi prima di un controllo in Chirurgia endoscopica, dando vita al far west in un corridoio d’ospedale. Eccessivo persino per una fiction, eppure così drammaticamente reale.

IMG-20151106-WA0041-3Forse non tutti ricorderanno. Un aneddoto allarmante. Non si sa se abbia un significato, se sia solo una coincidenza, ma è quantomeno indice della personalità. C’è, infatti, una curiosa convergenza fra narrazione - forse fantasiosa - di un primo momento storico e realtà di un secondo. Pochi gli credettero quando in tribunale raccontò che la notte dell’assassinio di Makovic (era il 29 marzo) sfilò la pistola nel bar a uno dei presenti. Perrone non seppe indicare a chi, per la precisione, avrebbe strappato di mano l’arma. Si pensò senz’altro a un modo per alleggerire la posizione.

La perizia dattiloscopica eseguita sulla Crvena Zastava calibro 9 semiautomatica, confutò peraltro la sua ricostruzione. Nessun altro avrebbe impugnato quell’arma oltre a lui, almeno in quella circostanza. Alla stessa maniera, e per converso, nel caso del "Fazzi", nessuna perizia potrebbe smontare il suo racconto, qualora fosse acciuffato. Come dire: se non l’ha fatto davvero la prima volta, sarebbe comunque stato in grado di farlo, come ha ampiamente dimostrato. Pericoloso e sfrontato, calcolatore e istintivo sulla base delle circostanze. In una parola: imprevedibile.  Ecco, forse, perché sta sembrando così difficile stanarlo. 

Già, ma la fuga. Per andare dove? Si è detto che azione improvvisata o piano, c’è bisogno comunque di cognizione sugli spostamenti futuri. Tutti o quasi ricorderanno “Le ali della libertà”, trasposizione cinematografica di un piccolo capolavoro letterario del miglior Stephen King (“Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank”), un racconto breve contenuto nella raccolta “Stagione diverse”. Aveva come protagonista Andy Dufresne, un bancario accusato (lui, almeno, ingiustamente) di aver assassinato la moglie e l’amante. Al di là di alcune differenze tra film e narrazione, in entrambi il concetto fondante era semplice e ingegnoso, e cioè che Dufresne avesse ideato preventivamente uno stratagemma perché documenti per nuova identità e un bel gruzzolo fossero intestati a un suo alias, qualora fosse riuscito un giorno a evadere dal carcere.

Potrà sembrare un po’ troppo romantico. Dufresne, si dirà, in fin dei conti è solo un personaggio letterario dotato per volontà del suo autore di spiccata intelligenza. Bisogna però ricordare che su Fabio Antonio Perrone, alias “Triglietta”, oggi 42enne e imparentato alla lontana con il suo quasi omonimo Antonio Perrone, il boss della Scu autore del libro “Fine pena mai”, qualche anno addietro era piombata una nuova ordinanza. E potrebbe cercarsi in quel periodo l'ideazione di qualche cautela per una salvezza futura. L’esperienza insegna.  

In breve. In seno a una guerra di mala che oggi sa quasi di stantio (eppure erano solo gli anni 90, durante la guerra dei clan De Tommasi e Tornese), era stato accusato con Marcello Dell’Anna, Pietro Leo e Francesco Giovanni Monte del duplice omicidio di Vincenzo Martena e Paolo Spada e del tentato omicidio di Giovanni Spada. Episodi lontani, avvenuti a Carmiano e datati 5 gennaio del 1993. Un arresto ordinato in un contesto molto più ampio (una quarantina di ordinanze) e in parte fondato su dichiarazioni di collaboratori di giustizia.

DSCN4589-2Perrone scomparve dalla scena fin quando il Tribunale del riesame non annullò l’ordinanza. E per quei fatti non vi è mai stato un seguito giudiziario e processuale. Dove vagò? Chi lo coprì? In seguito lasciò anche il Salento, trasferendosi in Toscana, in provincia di Massa Carrara. Poi, il recente rientro a Trepuzzi, per motivi ignoti, e quell’omicidio del montenegrino dopo una “lite” non meglio definita nei contorni avvenuta lo scorso anno.

Si rintanò a Casalabate, secondo i carabinieri del Nucleo investigativo grazie ad almeno un paio di contatti. Fu preso subito. E vi sono indagini ancora in corso sulla possibile rete di connivenze e complicità, comunque già ridotte rispetto al passato. Solo che questa volta, con la fuga dall’ospedale a colpi di Beretta estratta da una fondina di un agente e seguito dalla replica di raffiche di chi ha cercato che non gli sfuggisse, potrebbe aver sorpreso davvero tutti ed essersi fatto terra bruciata.

Una mandibola squadrata che incornicia perfettamente un volto ben poco rassicurante, quasi l’ergastolano tipo come da immaginario collettivo, Perrone potrebbe però aver avuto il tempo di prepararsi un domani. Una specie di assicurazione in caso d’infortunio. Ma se il finale alle “Ali della libertà” non piace e il parallelismo con Dufresne appare forzato, c’è sempre quello sul modello de “La 25esima ora”, con le dovute differenze del caso.

Nel film di Spike Lee, prima che si aprano le porte del penitenziario, un padre porta via il figlio condannato per traffico di droga guidando verso un altro Stato, dove si rifà un’esistenza creando una famiglia. Ma è solo un miraggio, un’ipotetica e, appunto, inesistente 25esima ora; ciò che si sarebbe potuto concretizzare se veramente il padre avesse dato vita a questo pensiero con l’accelerata decisiva. Eppure, è ciò che realmente potrebbe essere avvenuto se qualcuno vicino a Perrone (un amico insospettabile) fosse stato in qualche modo al corrente. Le prime ore, le più importanti quando informazioni, targhe, immagini di volti circolano già veloci nel mondo attuale, ma comunque confuse e a singhiozzo.  

Un’alternativa, è che sia ancora in zona, sempre meno propenso dopo 72 ore a sparare, molto di più a cambiare aspetto e a cercare di che vivere. Campando di frutti della terra e bevendo dove gli capita. Perdendo chili e facendosi crescere la barba. Se ha qualche appoggio, non può rimanere a lungo sempre nello stesso luogo, probabilmente villini lungo le marine o masserie. Deve spostarsi e cercare nuovi ripari. Meditando sulla fuga definitiva. La vita del latitante non è facile. Pure i pezzi da novanta hanno avuto difficoltà e si sono sentiti topi in trappola. Fra tutti gli scenari, forse il più semplice e per qualcuno vicino alla realtà. Ognuno, in cuor suo, s'è fatto un'idea. Oguno ha anche tante domande sul perché un soggetto del genere abbia avuto così poca attenzione. Lui, intanto, fa quello che gli riesce meglio: latita. 

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