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Cronaca

Saiba e Haytem, la vita in un attimo. Il destino degli ultimi in cerca di un futuro degno

Nella camera mortuaria del "Vito Fazzi" il saluto al giovane senagalese morto schiacciato sotto un trattore. Tra i presenti il marocchino che nel 2014 fu quasi ucciso da un pirata della strada

LECCE – La preghiera sussurrata dall’imam rimbalza tre le mura di una piccola stanza dove sono assiepate una ventina di persone. Al centro, su un tavolo della camera mortuaria del "Vito Fazzi" di Lecce, il corpo di Saiba Diao, completamente avvolto con un telo bianco che lascia ancora intravedere il sangue delle ferite.

Letteralmente è stato impacchettato, secondo il rituale musulmano che troverà compimento nei prossimi giorni, quando la salma sarà riportata nel paese d’origine, il Senegal dove il corpo del giovane lavoratore riceverà l'ultimo saluto. La cerimonia presso l'ospedale del capolugo salentino se da una parte rappresenta il tentativo di restituire dignità ad un ragazzo strappato troppo presto ad un'esistenza che pure non era stata generosa con lui, dall'altra suona come una denuncia di quanta strada ancora ci sia da percorrere nella direzione di un sostanziale rispetto delle comunità religiose diverse da quella cattolica, a partire da quelle islamiche, associate invece dagli stereotipi a luoghi di reclutamento di aspiranti terroristi e dunque guardate con malcelata diffidenza. 

Saiba è morto la mattina del 27 febbraio, a soli 20 anni, schiacciato dal peso di un trattore con il quale si stava dirigendo verso un terreno dell’azienda agricola per cui lavorava, nella zona di Campi Salentina: il proprietario è stato iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo.

Nel Salento da poco meno di un anno, in Italia forse dall’estate del 2014, Saiba si era fatto benvolere da tutti: a testimoniare la partecipazione della comunità campiota, ha partecipato alla breve cerimonia anche il sindaco, Egidio Zacheo. Il 20enne era stato assunto a dicembre, ma la sua permanenza in Italia era appesa all’accoglimento di un ricorso dopo il diniego della richiesta di asilo da parte della commissione territoriale. Quel foglio – come ha fatto notare la presidente provinciale di Arci, Anna Caputo – ora non gli servirà più.

Una famiglia numerosa lo attende a Tambacounda, circa 400 chilometri a sud est della capitale Dakar. Ai genitori e ai tanti fratelli erano destinati quasi tutti i risparmi che il giovane inviava ogni volta che ne aveva la possibilità. Con la salma viaggeranno anche due operatori di Arci che insieme agli altri colleghi oggi hanno pianto un ragazzo che si è ritrovato addosso una responsabilità fin troppo grande.

La vita è una questione di fortuna, di destino, di fatalità. Ciascuno definisce a modo suo quel fattore imponderabile che in un attimo determina gli avvenimenti. Ne sa qualcosa Haytem, 33enne di origine marocchina, presente anche lui per rendere omaggio al migrante senegalese.

1-307-71Il 17 gennaio del 2014, mentre era in bicicletta, fu investito da un’auto pirata nei pressi di Porto Cesareo (sul posto fu ritrovato uno specchietto, ricondotto poi al modello Land Rover). Se non fosse stato per l’intuito di un carabiniere che, passando in auto parecchio tempo dopo, notò uno scarpa insanguinata, sarebbe stata un’altra vittima della strada.

Oggi che è un invalido - privo della parte inferiore della gamba sinistra e con un braccio in pessime condizioni di funzionalità -, Haytem racconta di essersi risvegliato in ospedale privo degli effetti personali e di una notevole quantità di denaro (almeno tremila euro) con la quale doveva pagare, lui che era ambulante, la fornitura di alcuni capi di abbigliamento. Chi sia scappato dopo averlo travolto e cosa sia accaduto successivamente resta un mistero.

Al suo caso si sono interessati in molti, ha subito diverse operazioni chirurgiche e ricevuto tutte le cure sanitarie. Con l'assistenza legale che gli è stata garantita (Francesco D'Agata), magari potrà accedere al fondo di solidarietà per le vittime della strada.

Come Haytem, anche Saiba è arrivato in Italia da irregolare; come Haytem, anche Saiba, nonostante sia morto, ha ancora una storia da raccontare: tra le sue cose, infatti, sono stati trovati dei quaderni, scritti in pulaar, lingua parlata principalmente nella valle del fiume Senegal. Da solo si era anche preoccupato di contattare un editore, aveva voglia di raccontare la sua vita, le sue emozioni. Chissà cosa sognava per sé e per la sua famiglia, chissà cosa pensava di questo paese che lo accoglieva e lo respingeva al tempo stesso e che ancora fa fatica a eliminare dal lessico comune parole disumanizzanti come clandestino. Forse un giorno, leggendo quelle pagine, finalmente tradotte, capiremo con più chiarezza anche noi dove vogliamo andare, divisi, per adesso, tra la facile tentazione della paura e quell'innata tendenza all'umanità di cui, per fortuna, non ci siamo completamente dimenticati.

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