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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca

Salentini in Kosovo tra antiche rovine e strade di pace

Tra i 500 militari del contingente italiano molti sono originari del leccese. Dal monastero ortodosso di Decani ai bambini di Pec, squarci di lavoro quotidiano a 12 anni dalla fine della guerra civile

PEC (Kosovo) - Sono a 350 chilometri in linea d'aria dalla Puglia, impegnati in una missione di cui ormai si parla sempre meno, ma dove il lavoro da fare è ancora tanto. Perché, se i riflettori delle telecamere sono rivolti altrove, non sono certo definitivamente ricomposte le tensioni tra serbi e albanesi e non sono assopiti gli appetiti criminali su un pezzo di Balcani strategico per i traffici internazionali.

In Kosovo bisogna garantire la sicurezza e la libertà di movimento a tutte le minoranze presenti sul territorio, presidiare i siti del culto ortodosso, patrimonio dell'Unesco, cooperare con la società civile per venire incontro ai reali bisogni di un paese che sta cercando di rimarginare una profonda ferita. Nel corso di questi anni sono state costruite scuole, organizzati progetti per i minori; ultimamente si lavora anche nel settore agricolo, per attivare sistemi di irrigazione efficienti e permettere alla popolazione di coltivare la terra per avviare un circuito economico che possa garantire lavoro e sussistenza, in un paese dove la disoccupazione è al 45 per cento e l'età media è inferiore a trent'anni.

Sono oltre 500 i militari italiani presenti oggi in Kosovo, a 12 anni dalla fine della guerra civile, nell'ambito della missione Nato. Tra di loro sono diversi i salentini. L'ultimo avvicendamento dei battaglioni, nel maggio scorso, ha portato nella base "Villaggio Italia" di Pec - Peja il 21° Reggimento artiglieria terrestre "Trieste" di Foggia, sotto il comando del colonnello Vincenzo Cipullo.

Fra i tanti soldati pugliesi, il tenente colonnello Vincenzo Legrottaglie, che è originario di San Vito dei Normanni e si occupa della comunicazione. Il suo ruolo, il Public Information Officer, è il tramite fondamentale per mettere in contatto la missione con gli operatori dell'informazione. E' un ruolo, il suo, che negli ultimi anni ha assunto una grande importanza, di pari passo con la necessità delle forze armate di trasmettere all'opinione pubblica il senso del lavoro svolto in contesti molto problematici.

La caporal maggiore Giuseppina Palmisano è di San Michele Salentino, ha un ruolo tecnico perché si occupa dell'efficienza delle linee telefoniche nella base. Per la specificità del suo lavoro racconta che è importante andare in missione all'estero, perché solo così si lavora davvero sul campo. Walter Ciccarese, di Copertino, anche lui caporal maggiore, è alla sua seconda missione in Kosovo. Insieme al caporal maggiore Davide Soliti, di Cisternino, fa parte della squadra operativa e in questo momento si occupa di presidiare il monastero ortodosso di Decani, che insieme al Patriarcato di Pec è stato riconosciuto patrimonio dell'umanità per la sua importanza storico artistica: "Sono posti incredibilmente affascinanti - dice Ciccarese - e il contatto con queste realtà per noi è molto importante. Anche se con i monaci parliamo poco, perché noi restiamo di guardia all'esterno delle mura, loro sanno che ci siamo e si fidano di noi".

Il caporale Giacomo Chiriatti, anche lui di Copertino, si occupa dei mezzi di trasporto, il suo lavoro lo porta quotidianamente a contatto con la popolazione. La sua immagine del Kosovo sono i bambini che si incontrano per strada, con cui i militari dividono il pranzo: "L'incontro con i più piccoli ti fa cambiare lo stato d'animo e ti mette sempre di buon umore. E poi questi sono posti bellissimi, che non immaginavo di trovare". Del rapporto con la gente racconta anche Angelo Garrara, caporal maggiore di Lecce, che è tornato qui dopo una prima missione nel 2008. Ha notato tanti cambiamenti: nuove strade, negozi, lavori in corso dappertutto.

Solo una cosa, agli occhi del militare leccese non è cambiata, ed è il rapporto che tanto gli albanesi, quanto i serbi hanno instaurato con i militari della missione Kfor, Kosovo Force, italiani in particolare: "C'è un grandissimo rispetto nei nostri confronti e anche tanta riconoscenza per quello che cerchiamo di fare per loro e con loro". Non a caso i contingenti italiani sono noti nel mondo per la capacità di dialogo con le popolazioni locali, dalle quali, quasi sempre, riescono ad essere percepiti come operatori di pace.

E' il cosiddetto "italian way", una modalità di operare nelle aree di crisi che tiene conto della realtà locale, delle abitudini, della cultura e delle tradizioni di un popolo. In Kosovo si lavora con i cittadini albanesi, serbi, rom, e di altre minoranze, si dialoga con i rappresentanti dell'islam locale, della chiesa ortodossa e cattolica: non si impongono modelli importati dall'estero, ma si cerca di guidare questo paese finché non sarà in grado di camminare con le proprie gambe. Magari fra non molto tempo.

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