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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cronaca Lequile

Ucciso davanti alla moglie mentre prelevava al bancomat: due condanne all'ergastolo

Emessa la sentenza nel processo sulla morte dell'ex direttore di banca Giovanni Caramuscio, avvenuta durante una rapina la sera del 16 luglio del 2021. La Corte d'Assise di Lecce è andata oltre alle richieste della Procura, infliggendo il massimo della pena anche al ragazzo che non sparò

LEQUILE - Aveva trascorso una serata in famiglia e mentre rientrava in casa, poco dopo le 23, decise di fermarsi alla filiale Intesa San Paolo, a Lequile, per prelevare contanti. Scese dall’auto con la moglie e insieme a lei raggiunse lo sportello automatico. Scherzavano. Non potevano immaginare che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero sorriso insieme: un giovane sorprese di spalle Giovanni Caramuscio, 69enne di Monteroni, per rapinarlo, e questo nel voltarsi lo colpì con un pugno, ma il complice, in risposta, aprì il fuoco di una pistola.

Era la sera del 16 luglio del 2021 e l’uomo, direttore di banca in pensione, non ritornò a casa, né lo fece nei giorni seguenti. Fu raggiunto da due proiettili e uno si fece spazio nel cuore, togliendogli il respiro, davanti agli occhi terrorizzati della donna che amava, madre dei suoi tre figli.

Oggi è arrivato il verdetto per i due responsabili: ergastolo, e isolamento diurno per un anno, sia a Paulin Mecaj, il 31enne che premette il grilletto, che ad Andrea Capone, 28 anni, entrambi residenti a Lequile.

La sentenza è stata emessa oggi dalla Corte d’Assise del tribunale di Lecce, composta dal presidente Pietro Baffa, dalla collega Maria Francesca Mariano e dai giudici popolari, che ha riconosciuto entrambi colpevoli dei reati di omicidio volontario e rapina in concorso, spingendosi oltre le richieste del pubblico ministero Alberto Santacatterina che aveva invocato il massimo della pena solo per il primo, e 22 anni per il secondo.

Qui, il video del momento in cui il presidente legge il dispositivo.

A nulla sono valsi gli sforzi degli avvocati difensori Stefano Prontera (subentrato solo di recente nella difesa di Mecaj al posto del collega Luigi Rella) e Maria Cristina Brindisino e Raffaele De Carlo (per il complice) di alleggerire le posizioni dei loro assistiti, né le scuse, né il pentimento manifestato dagli stessi imputati prima attraverso lettere inviate a giudici e familiari, poi in aula, in chiusura del dibattimento.

Non appena i giudici finiranno di mettere nero su bianco le motivazioni della decisione, i legali valuteranno il ricorso in appello.

Nel dispositivo letto dal presidente Baffa, nell’aula bunker del carcere di Lecce, dove è stato celebrato il processo, è contemplato anche il risarcimento del danno ai familiari di Caramuscio che si erano costituiti parte civile con l’avvocato Stefano Pati.

Le indagini

La storia raccontata dagli imputati reo confessi davanti alla Corte sarebbe stata solo l’ultima di una serie di menzogne, per il sostituto procuratore Alberto Santacatterina, che coordinò le indagini dei carabinieri chiudendo il cerchio nel giro di poche ore, soprattutto grazie alla visione dei filmati ripresi dalle telecamere di sorveglianza e al racconto di alcuni testimoni.

Due ore dopo l’omicidio i militari piombarono nell’appartamento di Mecaj: era a torso nudo e stava lavando una maglietta. Non una maglietta qualunque, ma una compatibile a quella indossata dal rapinatore, ripreso dagli “occhi elettronici”. Il sospetto che l’assassino vivesse nelle vicinanze del luogo del delitto, proprio come Mecaj, era venuto in seguito all’ascolto di un giovane testimone. Questi aveva visto un individuo allontanarsi verso un pozzo con una busta bianca e ritornare a mani vuote, mostrando dunque di avere una certa conoscenza del luogo.

In quella busta recuperata dai carabinieri del comando provinciale di Lecce e dai vigili del fuoco c’erano gli abiti indossati dai banditi.

Non solo. In casa del 31enne, gli investigatori trovarono anche la pistola, una Beretta calibro 9.

Da un primo esame dei telefoni emerse inoltre che ci fossero stati diversi contatti con Capone, l’ultimo, il giorno della rapina, intorno alle 16.20.

Nella scorsa udienza, il pm Santacatterina aveva sostenuto la responsabilità di entrambi nell’omicidio e richiamandosi alla Corte di Cassazione, aveva così spiegato: “Si ha responsabilità a titolo di concorso quando ci sia l’effettiva previsione dell’evento diverso e la conseguente accettazione del rischio che avvenga”. Ma se il magistrato aveva tenuto conto dei ruoli diversi di ciascun imputato, tanto da invocare condanne differenti (ergastolo per l’esecutore materiale e 22 anni per Capone), la Corte d'Assise, alla luce del verdetto, non ha fatto distinzioni, infliggendo la stessa pena, la più alta possibile.

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