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Mercoledì, 17 Aprile 2024
Cronaca Tricase

Morì cadendo dal tetto della Selcom, "giallo" sulle modalità del sopralluogo

Lisa Picozzi, ingegnere milanese, spirò a Tricase nel 2010. A processo anche l'imprenditore Adelchi Sergio. Il capo dell'ufficio legale della Sun System per cui lei lavorava ritiene che non dovesse salire sul lucernario. Ma un intermediario fra le aziende smentisce: "C'erano accordi preliminari"

LECCE – E’ tornato in aula il processo per la morte di Lisa Picozzi, l’ingegnere milanese di 31 anni, deceduta tragicamente il 29 settembre del 2010. La donna precipitò dal solaio di un capannone industriale di proprietà dell’ex Selcom, società del gruppo Adelchi, situato nella zona industriale di Tricase, sulla via provinciale per Montesano Salentino.

A giudizio, dinanzi al giudice monocratico di Lecce, Roberto Tanisi, sono finiti l'ingegnere Davide Scarantino, amministratore delegato della Sun System, l'azienda milanese specializzata nella realizzazione di impianti fotovoltaici per cui Lisa Picozzi lavorava; Adelchi Sergio, patron dell’omonimo gruppo di Tricase che opera nel settore calzaturiero, e Luca Sergio, 42 anni (figlio di Adelchi), legale rappresentante della Selcom.

Un processo scaturito anche dal lavoro svolto dall’avvocato Massimo Bellini, legale della famiglia della vittima (che si è costituita parte civile), che aveva presentato in Procura una denuncia nei confronti dell’imprenditore salentino.

Oggi, in aula, ha deposto l’avvocato Giuseppe Milone, a capo dell’ufficio legale della Sun System. Secondo il teste l’ingegner Picozzi avrebbe dovuto solo scattare alcune foto dei capannoni, e la sua presenza non era richiesta sul tetto degli stessi. Una tesi, però, smentita da un altro teste, Gianluca Zaccaria, che aveva fatto da intermediario tra l’azienda milanese e quella salentina e che ha spiegato come il sopralluogo fosse negli accordi preliminari.

La vittima avrebbe trovato al suo arrivo le scale già posizionate per raggiungere la sommità degli edifici industriali. Dinanzi al giudice è comparso anche il maresciallo dei carabinieri Stefano Taddei, che ha raccontato dei rilievi e sopralluoghi eseguiti subito dopo la tragedia. L’udienza è stata aggiornata al prossimo 31 marzo.

Lisa Picozzi era giunta nel Salento per svolgere dei sopralluoghi sui tetti di alcuni capannoni, in rappresentanza della ditta lombarda. Dopo essere salita sul solaio per mezzo di una scala, mentre stava effettuando alcuni rilievi, all’improvviso precipitò al suolo da un'altezza di sette metri. Il rivestimento in eternit presente sul solaio aveva coperto anche il lucernario in plexiglass (capace di reggere un peso di soli 20 chilogrammi per metro quadro), trasformandolo, come ha scritto il gup, “in un'insidia e una trappola”.

Circostanza, questa, evidenziata sia nell'informativa dei carabinieri di Tricase, sia nella relazione dei tecnici dello Spesal. Gli agenti del Servizio di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro hanno rilevato le responsabilità della Sun System, che avrebbe dovuto svolgere, a loro dire, rilievi e accertamenti fotografici e stabilire in anticipo la pericolosità del solaio del capannone, di cui era comunque responsabile anche la proprietà.

Al di là delle inchieste giudiziarie e dei tempi della giustizia, c’è chi, come la mamma della 31enne scomparsa (presente oggi in aula), in questi lunghi anni non ha mai dimenticato quella dolce ragazza dagli occhi azzurri, che divideva la sua giovane vita tra il lavoro e la passione per lo sport. Lisa Picozzi era capitano del Cs Alba, formazione pallavolistica di Albese con Cassano che disputa il campionato di B2 femminile. Anche oggi le foto dei suoi splendidi occhi turchesi sembravano riempire di una luce intensa e penetrante la fredda aula del tribunale. Occhi impossibili da dimenticare.

Un dolore e una perdita difficili anche solo da immaginare, che la signora Picozzi ha affidato alle pagine virtuali di facebook, creando un gruppo dal titolo: “Per il ricordo di una “piccola” grande palleggiatrice: Lisa Picozzi”. Nelle sue parole c’è tutto il dolore di una mamma ferita, che ha visto portarsi via la propria figlia: “Urlo, urlo, urlo come una pazza ... perfino i morti, che mi guardano dalle loro gelide fotografie di ceramica sulle tombe, credo siano terrorizzati dal mio quotidiano appuntamento nella loro dimora e si domandino con quale diritto vengo a violare in quel modo il loro diritto alla quiete eterna.

Forse, anche tu, amore mio, temi che possa disturbare le anime, sei un po' preoccupata della mia irruenza, del mio non essere capace di un comportamento silente e pacato, del mio metterci l'anima in tutto quello che dico e che faccio, rispondendo a un moto che non so controllare ... come quando assistevo alle tue partite di pallavolo e discutevo con veemenza con il pubblico avversario, o quando inveivo contro gli arbitri, e tu, dal campo di gioco, con lo sguardo e un dito sulla bocca, mi imploravi "mamma, stai zitta" ... questa mamma, così presente, così poco incline al quieto vivere, così insofferente... così uguale a te nei tratti fisici e nell'anima, ma così diversa da te nei suoi comportamenti”.

Una discesa nel dolore profondo che prosegue così: “Sono fatta così, lo sai, l'hai sempre detto tu che sono iperbolica, che ho reazioni sempre esagerate, nel bene e nel male. Non posso certo cambiare adesso, ora che ho una ragione più forte per gridare al mondo la mia disperazione, con la violenza di un corpo e di una mente che si ribellano a un sopruso del destino, che va ben oltre la loro possibilità di accettarlo. E, intanto, continuo a chiedermi, a chiederti, come hai potuto farmi questo, abbandonarmi così, all'improvviso, rispondendo a chissà quale ordine, di chissà quale padrone e svuotando la mia vita di ogni senso per riempirla di angoscia, di sgomento, di niente. Sì che ho il diritto per fare tutto questo".

"Ho il diritto di chi non ha perso una cosa qualunque, ma ha perso se stessa e non sa più ritrovarsi nello spazio vitale, ogni giorno più angusto, dentro il quale si muove. Il diritto di chi è stato privato dei colori dell'arcobaleno e non può più dipingere sogni, speranze, futuro. Il diritto di chi non potrà mai accarezzare biondi capelli, con gli occhi più azzurri del più azzurro dei cieli. Il diritto di un sangue che non scorre più nelle vene, un sangue buono e generoso, tante volte donato, che urla il suo sdegno nel più assordante silenzio, lasciato per terra sul grigio, desolante cemento di un capannone vestito di morte. Un sangue che esce dai muri bianchi di Puglia e lascia il colore su leggi violate, coscienze assopite e increduli cuori. Era il tuo sangue, il mio sangue".

“Ho un diritto – conclude la mamma di Lisa Picozzi – che non si trova tra le pagine di un codice, è un diritto che vive, non scritto, tra le pieghe del cuore: sei tu il mio diritto, il mio diritto di amore”.

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