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Cronaca

Troppi interventi e danno permanente, l'Asl pagherà oltre 40mila euro

Lacunoso anche il consenso informato: la vittima avrebbe potuto potenzialmente optare per un altro intervento, in linea con le direttive nazionali e internazionali. Il problema dovuto a una frattura al gomito. Un iter tortuoso invece di una sola operazione

LECCE – La sentenza è stata pubblicata a giugno, ma la vicenda è venuta a galla soltanto oggi, tramite una comunicazione fornita sul proprio sito web dal Centro per i diritti del cittadino (Codici), associazione che ha una sede anche a Lecce e che s’è occupata di un caso particolare (tramite l’avvocato Giovanni De Donno), quello di una donna di 82 anni del capoluogo che ha subito un doppio intervento per una frattura al gomito (nello specifico, il capitello radiale). Risultato, un danno permanente.

Il problema sarebbe derivato proprio dal fatto di ricevere quel tipo di trattamento, reiterato nel tempo, piuttosto che un’operazione chirurgica d’urgenza in un’unica soluzione, secondo le linee guida nazionali e internazionali per questo tipo d’infortunio. La sentenza ancora non è passata in giudicato, ma l’Asl di Lecce, condannata al pagamento, non sembra intenzionata a proporre appello. La condanna prevede un risarcimento di 38mila euro (che superano i 40mila considerati gli interessi legali) per la donna e che arriva dopo un interminabile iter giudiziario, durato ben otto anni.

E’ stato il giudice del Tribunale civile, Katia Pinto, a condannare l’Azienda sanitaria locale al risarcimento. La causa era più articolata e aveva chiamato alle proprie responsabilità anche il Comune di Lecce, perché la caduta per la quale era insorto il grave problema era stata provocata da una buca in piazzale Livorno. In questo caso vi è stato però il rigetto perché il fatto avvenne in pieno giorno, con buone condizioni di visibilità, giacché la donna, all’epoca 69enne, per il giudice avrebbe dovuto comunque prestare maggiore attenzione. Il fatto stesso che il fondo fosse bagnato per recenti piogge avrebbe dovuto far intuire l'esistenza di evidenti insidie davanti ad alcune pozzanghere. 

Era il 2002. La donna fu trasportata presso l’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce. I medici del reparto di Ortopedia le diagnosticarono una lussazione al gomito destro e di radio e ulna sull'omero, con “frattura diastasata del capitello radiale dell'apice del processo coronoide. Procedettero quindi alla riduzione della lussazione e all’applicazione del gesso. I dolori, però, continuarono, tanto da essere sottoposta all’intervento di asportazione del capitello radiale. Fu impiantata una protesi metallica di capitello cementata. Ma dato che i disturbi persistevano, qualche mese dopo fu ricoverata per la terza volta e sottoposta a un ulteriore intervento chirurgico.

La protesi fu rimossa. Un calvario che si sarebbe potuto ipoteticamente evitare, se vi fosse stata un’informazione più accurata. Nella cartella pare vi fosse solo un modulo prestampato di consenso al trattamento chirurgico, privo però di riferimenti specifici sulla paziente e sulla tipologia del trattamento prescritto. In sostanza, una migliore presentazione del caso avrebbe potuto anche spingerla a richiedere un’ulteriore consulenza, prima di sottoporsi al trattamento.

Il danno, dunque, è per colpa professionale medica, cui ha casualmente concorso l’omissione del consenso informato. Certo è che quell’intervento chirurgico sarebbe stato effettuato in modo difforme rispetto alla tecnica consolidata.

Le perizie dei consulenti medico-legali, ivi compresa quella del giudice (la dottoressa Anna Paola Rossi) hanno confermato a carico dell’anziana il danno da invalidità permanente scaturito da malpractice medica.

In base ai dettami delle moderne acquisizioni specialistiche, spiegano da Codici, la frattura diasastata del capitello radiale complicata da lussazione di gomito deve essere trattata con un unico, tempestivo intervento chirurgico”. La decisione d’intervenire in due tempi, rimandando il trattamento della frattura del capitello solo a un'epoca successiva alla rimozione del gesso, sarebbe pratica inappropriata. Discutibile è stata giudicata anche la scelta di applicare una protesi metallica invece di una resezione-ablazione dell’osso, che avrebbe permesso probabilmente una migliore ripresa funzionale dell'arto.

Questa sentenza - evidenzia l’avvocato Stefano Gallotta, segretario di Codici Lecce rappresenta solo uno dei troppi casi di malpractice medica ma se ne ritiene importante la pubblicazione in quanto offre spunti di riflessione sulle possibili conseguenze del concorso tra scelte mediche sbagliate e assenza di un effettivo consenso informato”.

“In quanto associazione a tutela dei diritti del cittadino stiamo portando avanti da anni la campagna ‘Indigniamoci’ a tutela dei diritti dei malati – conclude -, al fine di fare chiarezza, a livello locale e nazionale, sui singoli casi e rendere giustizia alle vittime”.

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