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Martedì, 16 Aprile 2024
Cronaca

Uccise il figlioletto sgozzandolo: Mele condannato a trent'anni

Il gup del Tribunale di Lecce, Carlo Cazzella, ha condannato a trent'anni di reclusione Gianpiero Mele, il 26enne di Taurisano accusato del brutale assassinio del figlio Stefano, di due anni. L'omicidio avvenne il 30 giugno 2010

 

LECCE - A distanza di oltre un anno e mezzo - era il pomeriggio del 30 giugno del 2010 -, un primo importante verdetto è stato scritto nella tragica vicenda di Stefano Mele, il bimbo di poco più di due anni barbaramente assassinato dal padre Gianpiero, 26enne originario di Taurisano. Oggi, il gup del Tribunale di Lecce, Carlo Cazzella, lo ha condannato, al termine del giudizio con rito abbreviato, a trent'anni di reclusione, il massimo della pena. Accolta quindi la richiesta del pubblico ministero Guglielmo Cataldi, che nelle scorse udienze aveva chiesto una condanna a 30 anni. I legali di parte civile, gli avvocati Alessandro Stomeo e Salvatore Centonze, avevano chiesto un risarcimento pari a un milione di euro per l'ex compagna di Mele, Angelica Bolognese, e di 500mila euro per i nonni del piccolo Stefano. Il gup ha riconosciuto nei loro confronti una provvisionale di 100mila euro e stabilito che il risarcimento venga deciso in sede civile.
Secondo il giudice, dunque, Gianpiero Mele era capace di intendere e di volere mentre compiva quel terribile omicidio. Un'aspetto questo fondamentale per le sorti del processo. La difesa di Mele, rappresentata dagli avvocati Gabriella Mastrolia ed Angelo Pallara, che hanno discusso oggi, aveva chiesto e ottenuto che il loro assistito fosse giudicato con il rito abbreviato, condizionato però all'ascolto di un teste: il dottor Serafino De Giorgi. Secondo lo specialista il 26enne di Taurisano era incapace di intendere e di volere al momento dell'omicidio. Una tesi sostenuta dal dottor De Giorgi ma smentita dai due consulenti nominati dal Tribunale, lo psichiatra Domenico Suma e il professor Antonello Bellomo.
I due esperti, infatti, hanno stabilito, in una perizia di circa novanta pagine, che l'imputato era cosciente delle proprie azioni al momento del delitto. Una perizia che ha rafforzato la tesi dell'accusa secondo cui il tragico gesto di Mele sarebbe stato premeditato. Una tesi supportata principalmente da due prove: la lettera lasciata dall'uomo e l'acquisto della corda e del taglierino utilizzati per uccidere Stefano. Acquisti avvenuti poco prima di quel terribile omicidio.
In quel tragico pomeriggio d'inizio estate, l'orrore e la follia si manifestarono in tutta la loro ferocia poco dopo le 15 in una palazzina di via Monte Pollino, alla periferia di Torre San Giovanni, marina di Ugento. Mele, dopo aver acquistato della corda in un negozio di ferramenta vicino alla sua casa al mare, fece un cappio, legò il figlioletto ad una porta e cercò di impiccarlo. Poi, per alleviarne le sofferenze, impugnò un taglierino (acquistato nella stessa ferramenta) e gli tagliò la gola. Sono questi i particolari di un omicidio difficile da spiegare, dettato dalla gelosia e dalla paura di essere abbandonato dalla propria compagna. Un delitto atroce che ha visto come vittima un bimbo innocente e che ha inesorabilmente distrutto due famiglie, ricordandoci, come ha scritto Eschilo, che il male esiste e spesso siede alla nostra stessa tavola.
L'accusa nei confronti dell'imputato è di omicidio volontario con le aggravanti di aver agito con crudeltà e nei confronti di un essere indifeso per età; di aver agito con premeditazione, nei confronti di suo figlio e per futili motivi. Mele, che dopo l'omicidio cercò invano di togliersi la vita, procurandosi varie ferite all'addome e un profondo taglio alle vene del polso sinistro, usando con ogni probabilità la stessa arma con cui aveva assassinato il figlioletto, non era presente in aula.
Il padre infanticida si trova attualmente ricoverato in una clinica specializzata in provincia di Bari. Le sue condizioni non sono, secondo una perizia eseguita dal dottor Domenico Suma a fine agosto 2010, compatibili con il regime carcerario. 
 

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