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Mercoledì, 24 Aprile 2024
Cronaca

Ultrà Lecce, nessun fine preciso per giustificare un'associazione a delinquere

Rese note le motivazioni per il processo a carico della tifoseria. Condotte perseguibili singolarmente perché non è stata provato l'obiettivo comune e definito nelle violenze

LECCE – Atti di violenza, intimidazioni, pressioni non sono mancati. Questo è certo. Alcuni episodi hanno suscitato anche un certo rumore, come l’assedio dell’allora difensore giallorosso Souleymane Diamoutene, avvenuto durante una sessione di allenamento a Calimera, o il tentativo di zittire alcuni tifosi che intendevano inneggiare alla squadra in un momento in cui si era stabilito il silenzio in curva in segno di protesta. E infatti, il famoso e interminabile (visto anche il numero di imputati) processo a vari componenti del gruppo Ultrà Lecce della curva nord s’è concluso ai primi di maggio con undici condanne dovute a un’indagine mai messa in discussione su molte della singole posizioni in ballo (ma anche con varie assoluzioni e casi di prescrizione).

A mancare, di sicuro – ed è uno dei nodi fondamentali della questione – è stato il vincolo associativo. Proprio la caduta della contestazione dell’associazione a delinquere, si era già detto e scritto in quei giorni, aveva portato a una serie di condanne comunque miti e, appunto, per singoli episodi. Mentre per l’accusa, probabilmente, proprio l’associazione nel perpetrare una serie di condotte, rappresentava l’aspetto portante di un impianto che, a giochi fatti, non ha retto davanti alla Seconda sezione penale del Tribunale di Lecce (presidente Roberto  Tanisi, giudice relatore Fabrizio Malagnino, giudice Silvia Saracino).

E' mancata la prova dell'associazione

In queste ore sono state rese note le motivazioni della sentenza, in cui, scrivono i giudici, “è mancata […] la prova che i predetti atti di violenza ed intimidazione rientrassero nell'unitario programma associativo, delineato, approvato e perseguito con sia pur rudimentale dotazione logistica” dagli ultras. Insomma, non è stata dimostrata l’esistenza di un’associazione con una serie di finalità ben precise, come aggredire uomini  e  mezzi  delle forze dell’ordine, le tifoserie rivali, interferire con le attività di calciatori e responsabile del club, lanciare fumogeni e petardi. Solo per citare alcuni episodi.

I giudici si sono basati molto anche su “criteri di logica” e sentire comune, nella valutazione, ricordando che a fronte “dell’indeterminatezza del progetto criminale” di questo caso, le associazioni criminali vere e proprie hanno scopi di fondo rintracciabili in modo nitido,  come l'arricchimento dei consociati (tipico delle associazioni mafiose, verrebbe da dire) o l'affermazione di ideali condivisi (ovviamente, tramite condotte illecite, come accade per i terroristi).

Ipotizzabile il concorso eventuale

Soprattutto, per i giudici sono mancati nel caso del processo agli ultras leccesi, due aspetti riconosciuti con sentenze di Cassazione, quali “l'esistenza di un vincolo associativo stabile e tendenzialmente permanente, che travalichi la consumazione dei reati-scopo singolarmente considerati” e “l’esistenza di una struttura organizzativa, sia pur minima, idonea ed adeguata alla realizzazione degli obiettivi criminosi prefissati”. Tanto che, secondo i giudici, nei vari casi accertati, si può semmai ipotizzare il concorso eventuale in vari reati.

Sono quindi stati ritenuti astratti concetti come quello di ottenere il “totale predominio sulla curva nord” e non si può pensare che una cassa comune o l’esistenza di gerarchie e vessilli, possano essere stati destinati a mettere a segno dei crimini. Non sono stati ravvisati, per esempio, scopi come la raccolta di denaro per il mantenimento delle famiglie dei detenuti, come avvenuto a Catania.

La definizione che forse rende meglio l’idea del convincimento dei giudici è che gli imputati abbiano “costituito ed organizzato (ed alcuni di loro solo partecipato) ad un'associazione avente come scopo il tifo, con destinazione di adeguati uomini e mezzi a tale finalità”. Un perseguimento nel corso del quale sono alcuni  dei  tifosi  hanno  attuato  un  “parallelo  programma  criminoso”.

In molte conversazioni telefoniche intercettate, per esempio, si evincerebbero situazioni talmente occasionali e frutto di improvvisazione, che persino alcuni fra coloro che sono ritenuti leader della curva erano all’oscuro di incidenti in atto allo stadio. I giudici hanno rilevato come vi fosse difficoltà pure a individuare chi dovesse salire sul cornicione per portare avanti i cori, il che non sembra deporre verso una struttura così solidamente organizzata. Viceversa, vi sono state singole condotte da mettere sotto la lente in cui sono state riscontrate le responsabilità di alcuni, e non tutti, coloro che si ritrovano sotto il nome di “Ultrà Lecce”.

Mancano poi per i giudici le prove concrete dell’effettiva distruttività e micidialità del materiale esplodente spesso adoperato, tanto da non poter essere classificato come “esplosivo” vero e proprio. Solo in un caso ciò si delinea in modo inequivocabile, quando, cioè, il 16 marzo del 2008 fu lanciato un ordigno contro un blindato dei carabinieri (era in atto un corteo dei tifosi) con danni devastanti.

Diversi i casi accertati

Nulla da eccepire, però, ha avuto il collegio, su tanti episodi. Per esempio, sulle minacce formulate da alcuni fra gli ultras a un tifoso che voleva inneggiare, nonostante fosse in atto una contestazione (era il 24 ottobre del 2009). Il materiale probatorio è stato decisamente solido, a fronte dei “non ricordo” della vittima e di varie contraddizioni e ritrattazioni di testimoni.

Stesso dicasi per l’intimidazione ai danni di due steward del 28 novembre 2009, ai quali fu detto bruscamente di interrompere il contatto via radio con la polizia per non finire scaraventati al di sotto della balconata. O per diversi soggetti, nel caso di lancio di petardi e fumogeni durante l’allenamento del 16 settembre 2010 del Lecce a Calimera, fino a interrompere la seduta. Ancora, per il lancio di un fumogeno e di un petardo “Red Thunder” in campo, nel corso della gara casalinga del 27 ottobre 2010. Così come, il 2 dicembre 2010, per l’invasione del terreno di gioco a Calimera, nel corso di un altro allenamento, con accerchiamento di Diamoutene, insultato per i suoi trascorsi a Bari e tentativo persino di sfilargli la maglia.

L’accusa, nelle indagini portate avanti dalla Digos della Questura di Lecce, era rappresentata dall’allora procuratore aggiunto (oggi procuratore generale) Ennio Cillo. Componevano il collegio difensivo gli avvocati: Giuseppe Milli, Viola Messa, Francesca De Paolis, Carlo Sariconi, Vincenzo De Benedittis, Giovanni Erroi, Romeo  Russo; Luigi Rella, Cosimo  Damiano  Rampino, Paolo Cantelmo, Silvia Mauro, Stefano Prontera, Mario Ciardo, Anna Grazia Maraschio, Stefano  Pati, Salvatore Leone, Tommaso Passabì, Francesco Maria De Giorgi, Donato Pasquale De Matteis, Paolo  Maci, Massimo Zecca, Carlo Reho, Sergio Santese, Maurizio Memmo, Luigia Cretì.

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