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Sabato, 20 Aprile 2024
Cronaca

Una vita spesa nella lotta alla mafia, il procuratore Motta lascia il suo incarico

Il prossimo 15 dicembre lascerà, dopo otto anni, l'incarico di procuratore della Repubblica di Lecce e il 31 dicembre la magistratura dopo oltre 40 anni

LECCE – Due operazioni parallele, quasi ottanta arresti, gli ultimi sotto l’egida dell’uomo che più di ogni altro ha impersonato la lotta alla criminalità organizzata nella storia del Salento. Il procuratore Cataldo Motta il prossimo 15 dicembre lascerà, dopo otto anni, l’incarico di procuratore della Repubblica di Lecce.

La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario ha introdotto la temporaneità degli incarichi direttivi: “Le funzioni direttive hanno natura temporanea e sono conferite per la durata di quattro anni, al termine dei quali il magistrato può essere confermato, per altri quattro anni”. Era il 15 dicembre del 2008 quando subentrò a Rosario Colonna. Fino al 31 dicembre tornerà a fare (almeno sulla carta) il sostituto procuratore, il mestiere più bello del mondo come lui stesso lo ha definito, poi lascerà la lunga e proficua carriera da magistrato, avendo superato i 70 anni.

Nella piccola sala conferenze della Dia di Lecce, in via del Delfino, c’è un’aria greve. Il procuratore Motta, accompagnato dagli inseparabili uomini della scorta, arriva direttamente da Brindisi, dove ha partecipato a un’altra conferenza stampa. Le informazioni sull’operazione “Federico II” lasciano presto spazio alle domande sull’imminente addio. “Non voglio commiati, preferisco andarmene in punta di piedi – commenta con la consueta ironia –, senza lacrime e senza proclami”. La sede, del resto, non è casuale, la Dia ha da poco festeggiato i 25 anni. Un’istituzione voluta da due grandi magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e difesa e caldeggiata da Cataldo Motta in questo quarto di secolo di lotta alla quarta mafia pugliese: “Le operazioni odierne dimostrano, ancora una volta, come la Sacra corona unita continui a operare. E’ diventata meno appariscente e per questo ancora più pericolosa. Sono lontani gli anni del dacci oggi la nostra bomba quotidiana”.

Il riferimento è ai primi anni Novanta, alla stagione delle bombe culminate con l’attentato al treno Lecce-Zurigo. La strage fu evitata per miracolo: la bomba ad alto potenziale, piazzata a pochi chilometri da Lecce, divelse un tratto dei binari, ma il macchinista avvertì un balzo e si fermò pochi metri dopo. Poi seguirono gli attentati al Palazzo di giustizia, pianificati nel luglio del 1991 dai vertici della Sacra corona ancora in libertà. In quell’occasione il gruppo aveva deciso di uccidere Cataldo Motta, uno dei due pubblici ministeri al maxi processo alla quarta mafia pugliese. L'attentato non era riuscito per la protezione di cui godeva il magistrato.

Una vita trascorsa in magistratura e in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata, lascia di sicuro un’eredità difficile da colmare. Protagonista come detto dei due maxi-processi contro la Scu, nelle vesti di pubblico ministero, si è sempre prodigato affinché alla Sacra corona unita fosse riconosciuto lo status di associazione mafiosa. Una “battaglia” in cui si è avvalso della collaborazione dei tanti boss che hanno deciso di ingigantire la schiera dei collaboratori di giustizia, soprattutto dopo le dure condanne inflitte nel primo maxi processo. Un uomo che ha scritto la storia della magistratura leccese e che in oltre quarant’anni spesi al servizio dello Stato è diventato simbolo di legalità e giustizia. Sarebbe troppo complicato, o forse riduttivo, riportare le operazioni coordinate e i casi risolti in questi anni, spesi per gran parte nel suo ufficio al secondo piano degli uffici giudiziari di viale De Pietro, circondato dai crest e da un mare di carte, appunti vergati a mano con una grafia ordinata e precisa, codici, informative, atti, fascicoli, targhe, riconoscimenti e l'immancabile scatola di cioccolatini. 

I suoi unici rimpianti sono i casi irrisolti (ben pochi per la verità), tra cui soprattutto l’omicidio di Daniele Gravili, il bimbo di tre anni rapito, stuprato e lasciato agonizzante sulla spiaggia di Torre Chianca. Era il 12 settembre 1992, l’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio. “Con gli strumenti attuali – commenta il procuratore – probabilmente avremmo trovato la soluzione”. Un caso in cui gli inquirenti hanno dovuto fare i conti con una fitta coltre di omertà, “peggio che nei delitti di mafia”, la stessa che Motta in questi lunghi anni ha cercato si squarciare, cercando di far capire alla gente che la criminalità non può sostituirsi allo Stato, e che per i criminali c’è il carcere o una morte prematura. Continuerà questa sua missione anche dopo il 31 dicembre, proseguendo il suo peregrinare nelle scuole, insegnando ai ragazzi i concetti fondamentali di legalità giustizia, rispetto delle regole e civiltà.

Poi, forse, si dedicherà alla stesura di quel libro sulla Sacra corona che tutti auspicano e di cui svela un possibile titolo: “Uniti come i grani del rosario”. “In cinque anni – commenta con una battuta – ho scritto cinque pagine. Mi toccherà chiudermi nell’aula bunker per lavorare in tranquillità, circondato dai tanti faldoni dei due maxi processi alla Scu”. A sostituirlo, come reggente, ci sarà il collega Antonio De Donno, già da un po’ di tempo a capo della Dda leccese. E’ lui, del resto, uno dei possibili sostituti con Leonardo De Castris, procuratore di Foggia dal 2013.

Non resta che un saluto, una stretta di mano e “un grazie di tutto procuratore”, sussurrato dal cronista con commozione e tristezza, quella che avvolge la fine di un’epoca, o il saluto a chi in questi anni è riuscito a insegnare tante cose. 

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