Terzapagina. “Devil’s Knot”: sul grande schermo la eco di un clamoroso caso giudiziario
Il lungometraggio del canadese Atom Egoyan ripercorre, con alterne fortune, la prima fase di una vicenda che ha sconvolto gli Stati Uniti per diversi anni: la brutale uccisione di tre bambini e l'ingiusta condanna dei tre adolescenti messi sotto accusa
LECCE – Nel suo ultimo lungometraggio Atom Egoyan ha affrontato uno dei casi giudiziari più discussi degli Stati Uniti d’America negli ultimi decenni. “Devil’s Knot” racconta infatti il caso dei tre ragazzi di West Memphis, Arkansas, accusati e condannati ingiustamente per il brutale omicidio di tre bambini, avvenuto nel pomeriggio del 5 maggio del 1993. I cadaveri dei tre piccoli furono trovati barbaramente percossi e con i polsi legati alle caviglie con i lacci delle loro scarpe.
La piccola comunità del luogo cadde nella disperazione e la polizia locale, non adeguatamente preparata a gestire un crimine di tale portata, indirizzò subito i sospetti su un gruppo di adolescenti ritenuti vicini alla pratiche del satanismo. Damien Echols, il più problematico e intelligente dei tre, fu condannato alla pena di morte, mentre Jasn Baldwin e Jessie Misskelley – ragazzo con un quoziente intellettivo molto basso, cui la confessione era stata praticamente estorta- all’ergastolo. Ed è dal giorno del triplice omicidio a quello della condanna che Egoyan ripercorre le tappe della vicenda, con alterne fortune.
L’abbrivio del film è incoraggiante: particolarmente suggestiva la scena in cui il piccolo Stevie, una delle tre vittime, canta magnificamente tenendo per mano la madre, la brava Reese Witherspoon (nella foto, sotto, con Colin Firth, altro protagonista). Molto ben fatto anche il racconto del ritrovamento dei cadaveri, con un alternanza tra campi larghi e primi piani che esprime con efficacia sia la tensione drammatica di un’intera comunità, sia l’atroce consapevolezza degli agenti nel momento in cui si imbattono nei corpi dei ragazzini.
Ma è con l’inizio della parte processuale che la pellicola si appesantisce: forse sono troppi i passaggi salienti da compendiare in poco meno di due ore o forse si tratta di una deliberata scelta di Egoyan quella di accennare, quasi a stimolare l’ inconscio, alla vera chiave di lettura del caso. Sta di fatto che il respiro della narrazione è affannato, ma non scende quasi mai in profondità.
Solo nella parte finale, e anche piuttosto sbrigativamente, gli “indizi” seminati qua e là acquisiscono un senso tanto che solo i titoli di coda, sulle evoluzioni successive alla prima condanna, fanno chiudere il cerchio: ad esempio, l’esagerato esibizionismo davanti alle telecamere, condito da esaltati discorsi religiosi, da parte del patrigno di una delle vittime che non sfugge all’investigatore privato (Colin Firth). Contrario per principio alle pena capitale, l’uomo decide di offrire pro bono il suo aiuto allo staff della difesa.
Oppure la scoperta, da parte della madre di Stevie, che Terry Hobbs, il marito - e patrigno del ragazzino – potrebbe nascondere un segreto che lo catapulterà, anni dopo, al centro di una vicenda di cui ufficialmente non si conoscono ancora i colpevoli. Ma che ha diviso l’America portando anche ad una grande mobilitazione da parte di personaggi della cultura e dello spettacolo: Johnny Depp ha stretto amicizia con Echols - al quale si è unita in matrimonio un’architetto di New York che si era appassionata al suo caso - e ha voluto sul braccio lo stesso tatuaggio.
Sia chiaro, no è un brutto film, ma Egoyan sembra essere rimasto impigliato e appesantito nello svolgimento di una trama che offriva di per sé ben altra andatura.