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Sabato, 20 Aprile 2024
Cinema

Terzapagina. “The Butler. Un maggiordomo alla Casa Bianca”. La recensione

Non bastano un buon cast, volti noti ed una storia interessante a fare un gran film: l'opera di Lee Daniels per quanto gradevole racconta il cammino verso i diritti degli afro americani in maniera enfatica e senza troppo coraggio

Non bastano un buon cast, dei volti noti e una storia interessante a fare un gran film. La sensazione immediata, uscendo dalla sala cinematografica e dopo aver assistito a “The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca” è esattamente questa. Perché la pellicola, diretta da Lee Daniels (l’autore di Precious), sarà anche gradevole, arricchita da una serie di interpreti importanti come Forrest Withaker e Oprah Winfrey (secondo i ben informati tra le favorite all’oscar), Cuba Gooding Jr., Terrence Howard, Jane Fonda, Robin Williams e John Cusack, a cui si aggiungono volti della musica come Lenny Kravitz e Mariah Carey. Eppure appare un’operazione americana (sancita dalla commozione del presidente Obama alla proiezione), ma riuscita a metà.

Il film è l’adattamento cinematografico della storia di Eugene Allen, maggiordomo della casa bianca per oltre trenta anni. Il protagonista, Cecil, parte dal profondo Sud dell’America, dalla povertà delle piantagioni di cotone per entrare nel personale di servizio nella dimora presidenziale, dal 1957 al 1986, conoscendo sette amministrazioni (Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter e Reagan), che si confronteranno con le evoluzioni culturali e sociali legate all’apartheid.

Mentre l’uomo si adegua al lavoro scelto dalla comunità bianca per gli uomini di colore, suo figlio maggiore diventa un’attivista che combatte per i diritti civili. Nel rapporto conflittuale padre-figlio, nelle vicende principali della storia americana del Dopoguerra e nell’incontro personale col potere, si dipana il racconto di questa storia, dal punto di vista della popolazione afroamericana: si va pertanto dal movimento pacifista Freedom Riders a quello violento dei Black Panters, nella contraddizione di un paese spesso democratico solo nelle intenzioni.

Il percorso di Cecil si conclude nel ricongiungimento con suo figlio e nella comune battaglia per i diritti, che si concretizza nella campagna elettorale del 2008, che porta il primo afroamericano della storia a diventare presidente degli Stati Uniti. Tra enfasi e figure presidenziali abbozzate, non s’intravede un’accusa forte all’America e alle sue contraddizioni: il regista sembra quasi che non abbia voluto infierire, riproducendo un quadro apprezzabile, ma che riduce il percorso del film ad una presa di coscienza tutta personale del protagonista e che manca di una critica severa al paese e alle guide politiche.

I presidenti, infatti, sono spesso solo ritratti in aspetti secondari o caricaturali come Johnson, che detta la propria linea politica seduto su un water e chiedendo un succo di prugne. L’unico passaggio interessante, in tal senso, è la metafora tra i campi di cotone e i campi di concentramento. Nella sostanza, un buon film, che probabilmente varrà nomination e premi, ma senza coraggio. E spesso è il coraggio a fare la differenza.

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