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Cultura

Le Quattro Stagioni "viste" da Franzutti: un viaggio nelle fragilità umane

Da Vivaldi a John Cage, passando per Auden, il coreografo leccese ripercorre le fasi della vita trasformando "l'uomo comune" del poeta inglese in un eroe di tutti i giorni con trovate geniali e una regia impareggiabile

LECCE– A volte capita di andare a teatro per assistere a uno spettacolo dal quale si prende congedo entusiasti o insoddisfatti ma, sempre, con il desiderio di commentare gli aspetti che dello stesso hanno colpito maggiormente; o altrettanto hanno indignato. Altre volte si è più fortunati, e ci si imbatte in un’opera che si svolge su un palcoscenico solo per questioni di opportunità, ma che ha il potere di suggestionare, stupire e scuotere la coscienza fino al punto d’interrogarsi sulla natura stessa del teatro e sul ruolo degli autori nella società. Poeti, compositori, coreografi, pittori e attori, tutti quanti chiamati in causa dall’eterna domanda se alla rappresentazione debba essere affidato il compito d’intrattenere il pubblico, o di farlo riflettere. Per Fredy Franzutti le vie di mezzo sono come una giornata d’estate fredda e nuvolosa; in parole povere: fuori posto.

Ma fanno anch’esse parte della vita. E la scelta del maestro leccese di mettere in scena Le Quattro Stagioni non poteva prescindere dal chiamare in causa Freud e Marx, gli orrori della Grande Guerra e l’ansia sociale dell’uomo contemporaneo di W. H. Auden; insieme agli estremismi sonori e alle irreverenti provocazioni delle performances di John Cage, oltre a innumerevoli citazioni che si coglieranno appieno parecchio tempo dopo aver visto lo spettacolo; quasi singulti di quell’inconscio tanto caro psicoanalisi freudiana.

Un vero e proprio viaggio nell’animo umano, quello che il Balletto del Sud ha portato sul palco del Cantieri Teatrali Koreja, le cui quinte sceniche, osservate dai gradoni della platea fortemente verticale, ben si adattano alla prospettiva eccentrica del fondatore della Compagnia, il quale, con questo trentesimo lavoro, ha dimostrato una maturità non comune nel panorama ballettistico nazionale.

E con un viaggiatore pronto a partire si apre lo spettacolo di Franzutti, continuamente in bilico tra la tensione dell’abbandono di ogni certezza e quella dell’arrivo in un luogo estraneo. È l’eccellente Andrea Sirianni, esperto argonauta della psiche, a guidarci lungo il tragitto, tortuoso e irto d’insidie, che attende, ineludibile come il fato, l’uomo-valigia, perfetta incarnazione delle ansie post-belliche del primo Novecento che Wystan Auden saprà trasporre talmente bene, nei suoi versi più noti, da restarne sopraffatto, giungendo ad anticipare le psicosi urbane scaturite negli anni della successiva Guerra Fredda.WIeH-grDjG1hIEOW3xvasCn7PaA0vbw4QgRUiZZNtwKdw6rNTP-ll7GpN1eLRuOArzLjg2TaGPBoahnz-paCFYzsiNQDm8PqaR0WWySQ4N1S9mIb83wPm3p4u7eZH_Rzs5XtDzT6-NlTysuB6Sj_U2rM7aoCGlzKP3fMSlezvgeq6-vTyRUPSwqhj5_-mUhppOMFkrbILtoUEQ6dBnkaLtxwJd9Sop3efwL-2

Non è un caso che il maestro Franzutti abbia disseminato lo spazio scenico di continui rimandi a un altro grande autore novecentesco che ha fatto della paranoia da controllo la chiave di lettura delle sue opere maggiori, che definire profetiche sarebbe riduttivo, e della distopia un monito rimasto, purtroppo, inascoltato. Il Grande Fratello di Erick Arthur Blair, in arte George Orwell, scruta il protagonista (Sirianni-Auden) dal fondale scenico, realizzato dall’ottuagenaria pittrice di fama internazionale Isabella Ducrot, attraverso una moltitudine di occhi che trasportano lo spettatore nella voragine senza fondo di un vouyerismo gratuito e, spesso, compulsivo; quello, per intenderci, che assillava lo stesso Orwell, il poeta Auden, e l’amica-moglie-collega e omosessuale come lui, Erika Mann; tre personaggi il cui genio, loro malgrado, dobbiamo alla mai conclusa fuga dalla guerra, e da se stessi.

Ma, non senza imbarazzo, è soprattutto lo spettatore a sbirciare dietro le quinte, attraverso la barriera costituita dal fondale trasparente, le nudità dei ballerini mentre, “in-consapevolmente” scrutati, si cambiano d’abito. Trasparenza che allude alla fragilità della condizione umana, ai poteri occulti, ai totalitarismi sempre pronti a invadere la privacy e a schiacciare gli individui e gli individualismi per omologare, standardizzare, irreggimentare i cittadini-massa tra le fila dello Stato-apparato-esercito, il cui solo interesse, come secondo le convinzioni di Orwell e di Auden, non sarebbe che quello di accendere conflitti, piuttosto che estinguerli.

Bellissima, a tal proposito, l’interpretazione del soldato-burattino a stelle e strisce (il possente e scultoreo Lorenzo Bernardi), paradigma di una democrazia falsata da ideali in continuo contrasto con la realtà di un popolo troppo ubriaco da slogan e coccarde elettorali per rendersi conto che l’unica guerra per cui valga la pena combattere non è all’estero, bensì in casa propria. Una guerra contro il consumismo massivo che coinvolge non solo l’industria americana, responsabile dello tsunami di soap-opera, per vendere più “saponi” (si legga qui prodotti commerciali ed elettrodomestici, ndr) ma, in modo particolare, le icone di quella american way of life che da Disney getta un ponte fino a McDonald’s.

Come non impallidire, allora, quando W. H. Auden afferma che mentre Pinocchio è stato pensato per esser letto ai bambini, l’iper-cinetico Mikey Mouse, al contrario, è stato fatto per esser venduto?

E Vittoria Pellegrino, conturbante e dolcissima nei panni di Minnie, ha reso a quell’icona pop un tributo inarrivabile con ammiccamenti e movenze che avrebbero fatto arrossire anche il papà di Topolino.

Quattro quadri danzati, alternati dai versi struggenti e cinici di Wystan Auden, e cuciti insieme, come i drappi della Ducrot, dalle amelodiche sonorità di John Cage e dai quattro concerti per violino del “prete rosso”, il quale, tra tutti, era forse il più folle.

La follia, infatti, trasuda nell’opera di Franzutti come nelle corde degli autori che il coreografo ha scientemente giustapposto per raccontare il dramma della quotidianità; quella che Auden fa vivere ai suoi “ignoti cittadini” e Cage sbeffeggia privando la musica di ogni sostegno, svuotandola della sintassi per lasciarle solo il rumore di fondo. Eppure la follia di cui Fredy Franzutti impregna il suo Le Quattro Stagioni pare proprio rifarsi, nel concetto, all’originale tema portoghese del XVI secolo, tra i più antichi e noti nella musica europea, di cui proprio Antonio Vivaldi seppe dare un emblematico esempio con la sonata n. 12 Op. 1 in Re minore RV 63. Mondi che sembrano collidere, ma solo apparentemente, e che, al contrario, ripropongono il dualismo onnipresente nell’astrazione cognitiva propria all’essere umano: bene-male; luce-buio; bello-brutto, e così via. Contrapposizioni funzionali ad aprire una breccia nella mente degli esterrefatti spettatori di quella “cattiva maestra televisione” cui Karl Popper si rivolgeva affinché si difendessero dai contenuti spazzatura delle televisioni generaliste per ricercare una cultura “alta”, e altra, che non avesse a cuore soltanto il portafogli del pubblico-acquirente.

Per sottolineare ulteriormente l’antiteticità degli stati d’animo e la ciclicità delle stagioni, alle note rassicuranti di Vivaldi fanno da contraltare quelle caotiche e amelodiche di Cage. Una musica “strampalata” eseguita da un personaggio “strambo”, come ebbe modo di riassumere il buon vecchio Mike Buongiorno il 29 maggio 1959, durante la trasmissione “Lascia o raddoppia?”, alludendo, con l’arcinoto aplomb dello showman catodico, non già alla personalità, quella sì un po’ bizzarra, del concorrente vincitore di 5milioni di lire dell’epoca, quanto più alla sua vena artistica che lo vide eseguire una performance musicale fuori dai canoni, intitolata Water Walk (Passeggiata sull’acqua), con tanto di vasca da bagno, radio, barattoli e quant’altro non c’entrasse niente con gli strumenti musicali convenzionali. Un’esperienza talmente innovativa, e sconvolgente, da indurre il Mike nazionale, dopo essersi sentito rispondere da Cage che avrebbe lasciato la sua musica in Italia per far ritorno negli States, ad affermare, tra le risate del pubblico, che avrebbe fatto meglio a restare lui e a mandar via la sua musica. Siparietto che la dice lunga sul quadro culturale di un’Italia che si nutriva, e oggi più che mai, di programmi dallo scarso valore educativo. Anche se quello del ruolo didascalico della televisione resta un dibattito aperto, a tutt’oggi, la figura di Cage non è ancora d’immediata fruibilità, a meno di non inquadrarla in un contesto artistico che dalla cultura popolare esige di prendere le dovute distanze. Non sembri azzardato, a questo punto, il parallelismo tra Auden, Orwell, Cage e Manzoni. Innovatori, pionieri, e dissacratori dell’establishment culturale, ognuno a vario titolo, seppero restituire alla letteratura, alla musica e all’arte una dignità che l’attuale globalizzazione sta nuovamente tentando di soffocare in nome di un intrattenimento a basso costo.

La poesia di Auden, che chiude lo spettacolo di Franzutti (celebre la sua citazione nel film “Quattro matrimoni e un funerale”), il romanzo Nineteen Eighty Four (noto in Italia come “1984”) di Orwell, il brano 4’33” di John Cage – ma si potrebbe citare finanche la “Merda d’Artista” di Piero Manzoni – sono figli dell’insofferenza sociale del secondo dopo guerra portata alle estreme conseguenze dalla convinzione che tutto ciò che ci circonda sia soltanto un’illusione, libertà compresa. Così si comprende un po’ meglio il perché del viaggio intrapreso dal poeta, che alla fine ci rappresenta tutti, verso le stagioni dell’anima. Viaggio che ripercorre i momenti salienti di Hugh Wystan Auden, gli anni del perbenismo borghese di un’Inghilterra che si gettava a capofitto nel secondo conflitto mondiale sfuggendo a quello sessuale e generazionale che deflagherà, di lì a poco, in patria e nel resto del Mondo. Un conflitto che non salverà Auden dal proprio disagio e che lo porterà a riparare negli Stati Uniti, dopo il matrimonio di convenienza con la Mann (interpretata dalla sempre più brava Nuria Salado Fusté), celebrato in Gran Bretagna per consentirle si sfuggire al nazismo.

Allo stesso modo, il fondatore del Balletto del Sud, trae spunto dalle afflizioni di questi autori per indagare nell’intimo di ogni esistenza che, pur nel proprio anonimato, continua a scrivere stupende pagine di storia. Forse, però, tutto ciò potrebbe non servire a niente, come sostiene Auden, prostrato dalla perdita dell’amante, il suo compagno di viaggio, e sconfitto da un destino colmo di amarezze. Eppure, ricorda Vivaldi, dopo l’inverno della morte e del gelo un’altra primavera dell’amore e della rinascita è di là da venire.

Così, per dirla con le parole di Fredy Franzutti, si forma un nuovo pubblico.

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