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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cultura Tuglie

Terzapagina. Un Salento in "Muddhriche": Mino De Santis emoziona e commuove

Terzo disco del cantautore, dove tratteggia una terra di vizi e virtù, contraddizioni e derive. Tra ironia ed accuse feroci ai radical chic e alla società divisa in ricchi e "pezzenti", il dialetto torna ad essere lingua "nobile"

TUGLIE - Storie semplici dentro una narrazione di terra ed emozioni, dove si ritrovano le proprie radici, si guarda il presente con ironia e disincanto ed aleggia un futuro pieno di contraddizioni. Un Salento malinconico e genuino, tratteggiato tra i sogni d'anarchia e l'impegno sociale, le memorie di un'altra epoca, dove la fame attanagliava il quotidiano e dove il "poco" era lo sguardo sull'essenziale.

"Muddriche", il terzo album in studio (edito per gli Ululati di Lupo) di Mino De Santis, è un "minestrone" di temi e suggestioni, un grande puzzle, che ricostruisce un Salento, spoglio di tarante e slogan da cartolina, più intimista, dove la sua anima viva è quella attraversata dagli ulivi in rapporto ancestrale con la vocazione contadina e con l'atteggiamento guardingo nei confronti di un progresso che voglia imporsi, stravolgendo quell'identità.

Lui, Mino De Santis è un narratore moderno di un territorio, di cui non nasconde, anzi, sottolinea vizi e virtù, contraddizioni e derive: un po' De André, un po' Gaber, un po' Paolo Conte. Lo sguardo austero e profondo da "masculazzu" cela una scrittura, a tratti sublime che il dialetto valorizza ulteriormente. Perché se c'è un merito indiscusso nell'opera del cantautore di Tuglie, è l'aver riconsegnato capacità espressiva ad una lingua vista come "minore", perché bistrattata proprio da chi la utilizza. Il dialetto in De Santis torna lingua nobile, cesellata nei versi di canzoni che diventano poesia pura, come accade in brani quali "Monti di Mola" o in un capolavoro assoluto (che testimonia come le lingue "altre" siano più universali di quanto si creda), "Crêuza de mä".

Quanto a "Muddhriche", questo lavoro rappresenta la maturità artistica del cantautore salentino, capace di disegnare i personaggi caratterizzanti della vita sociale e religiosa dei paesi come ne il caso de "Lu preute" e "La pizzoca e la sbergugnata". "Radical chic" è un manifesto dei falsi ideologi dai comportamenti dissonanti col proprio credo (e già qui lo sguardo dell'autore si fa più universale ed esce dai confini del solo Salento), che si concedono a discorsi "colti" sui mali del "capitale" e sulla "miseria", ma che parlano di "fame" senza averne. Un'accusa feroce a chi ha "poco da dire" e "tanto da parlar".

L'intimismo di nostalgie e ricordi si evince in "Anni", "Fiche cu le mendule" e "Porta Verde" tracce di un territorio del passato, che appartiene anche a chi non lo ha vissuto, dove la povertà era lo scorcio "naturale" da cui osservare la realtà. E dove le "muddhriche" erano avanzi non solo del pane, ma anche della vita, emblema della preziosità delle piccole cose, del sudore e della fatica e della pazienza. Quasi come nell'evangelico richiamo della donna Cananea che ricorda come "Anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni".

Un tempo senza tempo che porta in dote un bagaglio di valori da non disperdere. Quello delle storie d'amore come "Sutta na chianta de chiapparu", dove la Pantalea e lu Tore sono i modelli di un corteggiamento d'altra epoca, dove galeotto non fu il libro, ma le "marangiane" e "nu fiuru de chiapparu" ha la stessa somiglianza di una rosa.

De Santis torna scanzonato in "Ieu fazzu gezz", gradevole pezzo in levare che fa molto Sergio Caputo, che sembra l'applicazione del "Radical chic" alla musica, dove gli spettatori si mostrano interessati alla complicata esibizione artistica per non passare da ignoranti. "Certi culi" non è filosofia attribuita al "lato b", ma una riflessione su come la sensualità di un particolare esteriore del corpo di una donna sia rimando ad una osservazione più attenta dell'interiore. Del resto, si sono spese lezioni di bellezza sulla "Venere Callipigia" ("dalle belle natiche").

"Pezzenti" è il brano più forte dell'album (che si avvale della partecipazione di Nandu Popu e Giovanni "Endesho", figlio di Mino De Santis), perché fa emergere una visione del mondo, che non è solo "presa d'atto", ma contestazione "politica" di una società dove la globalizzazione e la grande finanza spersonalizzano l'umanità. Lavavetri e vu cumprà, i nuovi schiavi tra padroni e caporali, sottopagati e spacciati per "invasori" sono il pretesto per raccontare l'evoluzione di un mondo, dove non dividono più ideologie, culture, religioni o colore della pelle: la discriminante è tutta nella differenza tra chi gestisce il denaro e chi no, dove il primo ha tutto l'interesse a fomentare una guerra tra i "pezzenti" (tutte le storie di ordinaria precarietà), in grado di favorirlo e accrescere la sua "potenza".

L'Arburu te ulie è l'interlocutore del pezzo conclusivo, una invocazione alla natura e al patrimonio collettivo della terra, fatto di grandi e piccole narrazioni. È il brano più poetico dell'album, dove quell'albero è testimone e spettatore di storie e di amori: nella sua presenza c'è l'eternità di un Salento, che vive dentro le "uci dei tanti prima de mie" e in una ricchezza immateriale più preziosa di tutto il denaro del mondo. "Fuiazza dopo fuiazza", muddhrica su muddhrica, commuove ed emoziona. Mentre si spegne l'ultima nota e risale la consapevolezza che il Salento ha trovato non solo un cantore, ma un grande autore. Un po' De André, un po' Gaber, un po' Paolo Conte. O semplicemente Mino De Santis.

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