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Giovedì, 25 Aprile 2024
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Terzapagina. “L’illogica allegria” di questi dieci anni senza Giorgio Gaber

Il primo gennaio scorso si è celebrato il decennale della scomparsa dell'artista milanese, voce scomoda, libera e profetica nell'Italia che mutava, ed emblema di una "razza in estinzione", che voleva cambiare davvero la storia

LECCE – “C’era una volta il Signor G”. Sarebbe l’incipit perfetto per una storia da inventare, che raccontasse magari di un personaggio scomodo, nemico del luogo comune, profetico nella sua parvenza eretica, drammaticamente dirompente. Magari una figura, che inveisca in pieno ’78 contro i “polli di allevamento” che “odiate ormai per frustrazione e non per scelta” ed elabora i lutti di una sinistra “sognante”, ma “frantumata” dal crollo delle ideologie e dalle sue mille contraddizioni.

Sarebbe l’incipit perfetto per una storia tutta da inventare e narrare. Ma il Signor G, al secolo Giorgio Gaber è realmente esistito; e non è per niente un oggetto da museo o una creazione da estratta dalla fantasia di un romanziere contemporaneo. Non è neanche il teatrante di massa, che le commemorazioni televisive si sforzano di ricostruire, racchiudendolo solo nella sua prima “vita”, quella dentro lo schermo catodico, per trarne una divertente macchietta garbata degli anni Settanta.

Una ricostruzione simile potrebbe essere pure una “bella idea” ma che si trasformerebbe in una “brutta poesia” tipica della celebrazione buonista italiota. Buonista Gaber non lo era per niente. Forse anche per questo si era allontanato dalla televisione commerciale prima che gli altri si accorgessero che fosse andato via, richiamato dalla strada impervia del teatro-canzone, dove raccontare col suo sguardo disincantato e lucido il mondo che cambiava.

Sono già passati dieci anni, dalla sua prematura scomparsa, il 1° gennaio del 2003. Ma, in realtà, è come se non se fosse mai andato sul serio. Le parole delle sue canzoni hanno intagliato tratti di umanità, ricamando storie, bacchettando e prendendo a picconate una società in perenne conflitto con se stessa, diseducata all’utopia ed ammaliata dal consumismo, dalla modernità disumanizzata, dalle abitudini del conformismo, dalla cultura annullante da rotocalco, dall’egoismo, “l’ultimo peccato originale”. Perché “quando è moda è moda”.

C’è da ringraziare chi come Sandro Luporini, pittore viareggino ed alter ego di Gaber, che con quest’ultimo ha composto quell’asse creativa durata dagli anni Settanta fino alla scomparsa del cantautore milanese. E c’è da rendere merito ad altre due persone, che, in questi anni, hanno contribuito a ricordare il senso del messaggio gaberiano: Andrea Scanzi, giornalista de Il Fatto Quotidiano, che ha portato in scena di recente uno spettacolo di grande impatto sulla figura dell’artista scomparso e che resta tra i pochi reali interpreti di un pensiero, che in troppi vorrebbero fare proprio (bellissimo, tra l’altro, in suo pezzo di giorni il riferimento al “fraintendimento” di Gaber); il secondo è Giulio Casale, l’artista eclettico, già voce degli Estra (un gruppo rock degli anni Novanta davvero forte), che ha riproposto con coraggio alcuni degli spettacoli gaberiani più complessi ed attuali.

Molti ancora oggi si proclamano gaberiani, e forse anche tra loro c’è qualche “pollo di allevamento”, che si professa tale più per “frustrazione” che “per scelta”, quasi per necessità. Ma quando il Signor G si esibiva, era una corsa al ripudio dell’intellettuale fastidioso: odiato a destra e mal sopportato a sinistra, tanto da essere ben presto etichettato come “leghista estetico”, come un qualunquista, populista, antesignano dell’antipolitica, anarchico senza “casa”, o meglio “anarcoide”. La politica era per lui un concetto molto diverso da quello incarnato dalla “democrazia partecipata”. Era “appartenenza” come nel legame sincronico di una vita in due.

Non “amor di patria” patinato. Gaber fls_blobs.asp4-2era anzi anti-patriota (nella stessa incidenza significativa del termine nell’idea di un altro personaggio non allineato come don Milani) ed anti-sistema, ma militante degli ideali e della libertà. Quella vera e non praticata solo a parole. La stessa che gli ha permesso di “tollerare” una moglie approdata nel giro berlusconiano di Forza Italia e che avrebbe affossato il matrimonio di qualsiasi altro individuo.

Mancano la sua sagacia, quello sguardo introspettivo che ha scardinato certezze militanti, l’ironia pungente di “Mi fa male il mondo”; mancano la sapienza di smascherare la consuetudine di “far finta di essere sani”, il potere ipocrita dei falsi buoni, l’equidistanza interessata del conformista; manca la sua franca ammissione di una generazione, la propria, sconfitta dalla storia.

Ed è un po’ come fare i conti con l’illogica allegria di non avere più tra i propri compagni di viaggio l’emblema di una razza in estinzione. Quella che sognava di essere come più di se stessa, per cambiare davvero le cose e la vita. Prima che ogni sogno si rattrappisse.

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