Dignità autonome di prostituzione, il “bordello” in tour anche a Lecce
Attori come prostitute, spettatori come clienti, e prestazioni offerte in un teatro trasformato in bordello. La scommessa degli autori del format che ha sbancato i box-office italiani ed esteri conquista i leccesi per il terzo anno consecutivo che, tra botteghe, cantine e palazzi del centro vanno in cerca di pillole di piacere teatrale
LECCE – Se quella di Luciano Melchionna e Betta Cianchini sia da considerarsi una provocazione o una performante prova di genialità artistica, sarà il pubblico a giudicarlo. Quel che è certo è che non si può parlare dello spettacolo più coinvolgente e innovativo di questo quarto di secolo senza prima andare a vederlo. E quando ciò avviene, non senza difficoltà visto che i biglietti vanno letteralmente a ruba, le reazioni possono essere le più varie, poiché molteplici sono le storie che vivono grazie al teatro. Anche se, come sostiene lo stesso Melchionna, non è vero il contrario: il teatro non dà più da vivere a chi quelle storie le mette in scena.
Proprio da qui prende avvio la scommessa di Dignità autonome di prostituzione, che non vuol essere una commedia, né un dramma, e tantomeno un musical. Piuttosto, un esuberante mix di tutte e tre le cose, con l’aggiunta di elementi estrapolati dall’arte di strada, dalla vita circense, dal cinema di Federico Fellini, e una spolverata di esperienze autoriali che, in buona sostanza, ne fanno qualcosa di unico, pur se in continua mutazione.
Un “bordello artistico” l’ha definito Melchionna, dove la prestazione – la marchetta per capirci – è il risultato di una contrattazione consapevole tra il cliente e la prostituta che, alla fine dei giochi, sarà pagata in base al livello di soddisfazione raggiunto. L’idea alla base di questo fantastico spettacolo è di una semplicità sconcertante: proporre agli spettatori, che recitano attivamente il ruolo dei clienti, di uscire dagli schemi e di sperimentare la vita teatrale da un punto di vista inconsueto, interagendo con gli attori e divenendo essi stessi parte dello spettacolo.
Ovvero, ci si reca al bordello, si sceglie la prostituta, o si viene scelti da quest’ultima, la si segue, garbatamente, nel suo postribolo e ci si affida alle sue arti seduttive. E proprio come avverrebbe nello scambio reale tra cliente e meretrice, il primo può fidarsi soltanto di ciò che vede con i propri occhi e sente con le proprie orecchie, e la seconda non può che dipendere dai danari –i “dollarini” simili alle monete di carta del Monopoli – per tirare a campare. Le prestazioni, infatti, non sono esplicitate e ogni volta l’accordo è raggiunto a scatola chiusa. Ma l’autorevole e temuto protettore, “Papi Luciano” (Luciano Melchionna), garantisce spassionatamente la bontà dei prodotti offerti dalla casa. E sempre lui l’istrionico e affettuoso conduttore di uno spettacolo di oltre quattro ore che trasporta il pubblico in un non luogo artistico, a momenti onirico, sospeso tra le evanescenze delle macchine del fumo e i giochi di luce e ombra e i labirintici percorsi tra edifici e vicoli cittadini, mentre schiamazzi, musiche e gridolini di soddisfazione si odono di lontano.
Ieri sera, alla prima dello spettacolo che sarà in scena fino al 3 maggio prossimo, all’esterno della “bomboniera”, come i leccesi chiamano l’ottocentesco teatro Paisiello, che la compagnia, per il terzo anno consecutivo, ha trasformato in un credibilissimo “bordello artistico”, l’adrenalina e l’eccitazione erano alle stelle. E l’aria, al contempo un po’ stranita e divertita, sui volti degli avventori-spettatori tradiva l’impazienza di questi ultimi di calarsi in un’esperienza mai provata prima, nonostante molti di loro, rapiti dalle passate edizioni, siano tornati con rinnovato entusiasmo.
Tutto ha inizio quando, da una finestra al primo piano dell’appartamento adiacente al teatro una bella e rubiconda signorina, microfono in mano e abbigliamento succinto, intona l’esilarante canzone intitolata “Sono una zoccola”. Quindi, tra gli applausi e le risa della gente che gremiva via Giuseppe Palmieri, le porte del Paisiello si spalancano lasciando uscire avvenenti donnine e prestanti giovanotti i quali, cantando una canzone in pieno stile Broadway, illustrano le proprie mercanzie invitando i potenziali clienti a seguirli nella “casa chiusa dell’arte”, dove, ad attenderli ci sarà un ambiente completamente stravolto e adattato a casino tardo-ottocentesco.
Al centro della platea, una bella signora, vestita di lamé e adornata da un manto di piume di pavone, si esibisce, con aria compassata, in un’improbabile assolo canoro. La folla si accalca, occupando lo spazio solitamente riservato a file ordinate di poltroncine di velluto rosso, fino a circondare, come un esercito invasore, l’elegante performer. Ben presto, però, i presenti si renderanno conto che la cantante non è altri che un’allegoria dell’Italia, ridotta a vecchia baldracca che si vende al miglior offerente ma finisce col restare presa nel fuoco incrociato dell’ex alleato tedesco, cui, in precedenza, si era concessa senza tema, né pudore. Un momento prima di cadere sotto i colpi dell’artiglieria, però, un battello la porta in salvo – come fu per Vittorio Emanuele III nel settembre del 1943 – chiudendo simbolicamente il sipario su una vicenda dalla quale il Paese non si riprenderà mai più.
È questa la cornice che fa da sfondo all’ingresso delle prostitute, le quali, assistono divertite insieme agli spettatori al divertente siparietto tra Lia, un omaccione di origini iberiche, che si cala come un acrobata circense dalla volta del palcoscenico, e Papi Luciano, il protettore. I due, costantemente interrotti dalle gag dell’esuberante e avvenente tenutaria ninfomane, Wanda, al secolo Clio Evans, illustreranno le regole della casa per far sì che ogni cliente tragga il massimo godimento dalle abilità degli inquilini del casino.
“Perché il teatro deve tornare a essere desiderato”, sostiene l’autore di origini capitoline, il quale, tra le altre, è anche drammaturgo, regista cinematografico e teatrale, nonché vincitore di numerosi e prestigiosi premi e riconoscimenti (uno di questi, il Golden Graal del 2008, premio speciale per l’idea e la regia proprio per DAdP).
E non poteva esserci formula migliore di questa per raccontare il disagio di una categoria di lavoratori, i quali, tra mille affanni, faticano a sbarcare il lunario in un Paese che, spudoratamente e pervicacemente, vuol illudere i cittadini che la crisi sia passata. Da qui la prostituzione come ultima spiaggia.
Eppure dietro questa scelta, come spiegheranno gli attori durante lo spettacolo, non c’è sconfitta, afflizione, o condanna; bensì una presa di coscienza che, in ultima analisi, se le cose vanno in questo modo siamo soltanto noi a volerlo. Ma non manca la critica feroce delle puttane all’indirizzo della “Piccola Italia” (Caterina Pontrandolfo), responsabile del declino morale ed economico per la latitanza di uno Stato sociale. Perciò, basta rimboccarsi le maniche, o tirar su le sottane, e dare il meglio di sé per ricominciare a remare verso l’isola che non c’è, ovvero una nazione a misura d’uomini e donne, di bambini e famiglie e, soprattutto, di gente onesta.
Un inizio, sottolineato anche dal cortometraggio “Il teatro torna a casa”, pubblicità progresso realizzata insieme all’attrice Franca Valeri, con il patrocinio del Ministero per i beni e le attività culturali, che, in veloci inquadrature, descrive i sogni, le speranze e le ansie degli attori confinati, quasi marionette dimenticate in un teatrino impolverato, tra gli spazi scenici di una casa-teatro in perenne attesa dell’agognato pubblico; ragion d’essere, quest’ultimo, di ogni opera e di ogni commediante.
Tuttavia, la casa chiusa più nota d’Italia, in tour da ben otto anni con una serie di successi clamorosi, insegna anche a difendersi da tutto ciò, e lo fa con le armi proprie alla recitazione, divulgando il rispetto per quest’arte spesso messa al bando o bistrattata dalle stesse istituzioni, e che, in tempi ormai lontani, era posta al centro della vita sociale, riservando agli attori gli stessi riguardi dovuti a nobili e politici. Ecco perché, in nuce, emerge a caratteri cubitali la parola “dignità”. Ed ecco il motivo per cui ogni prostituta, prima si concedersi, ammonisce i propri clienti ad assumere un atteggiamento di rispetto, quasi religioso, nei confronti del suo lavoro e della sua persona.
Certo che parlare di dignità mentre ci si prostituisce, o si paga per ottenere qualcosa che le regole della comunità assumono come reato, crea una certa frizione. Nondimeno, secondo Luciano Melchionna e Betta Cianchini (che veste i panni di Anya), quest’ultima è funzionale allo scopo: l’ansia e il disagio sociale portano a riflettere sulle condizioni di vita, di lavoro, delle relazioni sociali, coniugali, genitoriali e, in modo particolare, sulla considerazione di sé. Basta poco, è la filosia di fondo, per vestire i panni della prostituta, mentre è assai arduo togliersi di dosso quell’etichetta.
Cosa offre la casa? Qual è il pruriginoso oggetto dell’interesse? Luciano Melchionna ne parla definendole “pillole di piacere teatrale”. Pillole, perché come delle medicine vengono somministrate ad personam; ma anche per via della durata di ogni prestazione che, di solito, non supera il quarto d’ora. E non basterà un’intera serata per profittare delle accattivanti profferte del bordello. Tanto che lo spettacolo, in replica dal 29 aprile al 3 maggio, si può considerare aperto, a seconda delle esigenze e della voglia dei clienti spettatori di frequentare e approfondire la conoscenza degli attori.
Vagamente ispirato alle atmosfere del The Rocky Horror Show, capolavoro teatrale del 1973 di Richard O’Brien, da cui sarà tratto l’omonimo film, Dignità autonome di Prostituzione si proietta molto oltre, portando l’interpretazione attoriale a livelli unici e innovativi. Come non citare L’Anarchica, con la sua violenta contestazione delle istituzioni; il Supereroe, dissacrante interpretazione del pene di un ecclesiastico, tenuta, peraltro in una Chiesetta di via Palmieri; La Mio Fratello, abusata sessualmente da minorenne e poi innamorata del proprio fratello, o forse no, ma in continua ricerca di un contatto gentile; e, poi, la magistrale La I panni sporchi, anziana afflitta dalle responsabilità verso un figlio immaturo e dilaniata dalla demenza senile. Ma sarebbe troppo lungo ricordarli tutti.
Giulia Delli Santi, responsabile del Teatro Pubblico Pugliese, e Gigi Coclite, assessore alla Cultura del Comune di Lecce, hanno scommesso sin dal primo istante sul progetto di Luciano Melchionna e Betta Cianchini, fornendo loro il supporto tecnico e logistico affinché il format potesse coinvolgere un intero quartiere del centro storico e, soprattutto, i suoi abitanti.
È un teatro, quello di Melchionna, che piuttosto che imitare se stesso, imita la realtà scabrosa e ipocrita della società contemporanea, lo squallore della normalità suburbana, dei centri storici e delle periferie cittadine dove, tra chiese, case e palazzi del potere, quando cala la notte, ma anche in pieno giorno, si concludono mercimoni d’ogni sorta e s’intrattengono relazioni illecite.
Nulla di più simile alla vita teatrale, secondo la visione del regista, che oltre a concedersi, con generosa e irriverente autoironia, firma molti dei bellissimi monologhi degli attori-prostitute ai quali va un plauso per le brillanti e complesse rappresentazioni; altro che marchette!
Non solo recitazione, dunque, ma installazioni, brani poetici, monologhi, stornelli, gag comiche, balletti, giocoleria e musica, tanta musica per un evento assolutamente inatteso e sorprendente che la città ha dimostrato ampiamente di apprezzare e che si annuncia già come un cult del nuovo millennio, come già fu per l’opera di O’Brien nel secolo scorso.
A questo punto, sarebbe legittimo domandarsi, chi davvero si prostituisca e chi, di fatto, metta in gioco la propria dignità. Sicuramente, tornando a casa, tra mura rassicuranti e coperte calde, resta la certezza di aver speso bene quei dollarini e sorge la speranza che il bordello dell’arte, con il suo sfacciato carrozzone di umanità, sia ancora lì ad attenderci domani.